First ride Santa Cruz Bullit

23 Nov 2020

Lilla, viola o lavanda ? Lavanda, “orka pupazza” è lavanda ! Del resto se gli Americani definiscono il colore con la dicitura lavander direi che non ci possono essere dubbi 🙂

E’ arrivata in Pro-M in settimana e quindi, nonostante il lockdown ci impedisse di uscire da Milano, abbiamo passato il weekend in sella alla nuovissima E-Bike di Santa Cruz : la Bullit . Una endurona da 170 mm di corsa sia al posteriore che all’ anteriore, full carbon di un colore per noi magnifico : lavanda appunto !!! Non mi dilungherò troppo sugli aspetti tecnici e sull’ equipaggiamento della E-Mtb (che se volete potete leggere qui : https://www.pro-mstore.com/bici-santa-cruz-bullit-cc-xt-85730219) se non per dire che la nostra Bullit CC era equipaggiata con il kit Shimano XT e che la costruzione generale è, come per tutte le Santa, di ottimo livello .

Veniamo subito alle prime impressioni sulla nuovissima enduro di Santa Cruz : la Bullit è in tutto e per tutto una Heckler al testosterone ! Si guida molto bene, anche se il peso in più della batteria posizionato in alto e in avanti, la rende meno giocosa della sorellina minore . Il peso totale di soli Kg. 22,460.- in taglia Medium penso la renda la E-Mtb enduro più leggera del mercato . Il bilanciamento generale è più che buono, la bicicletta dona buona confidenza sin da subito e l’ avantreno più caricato la rende un’ ottima macchina da enduro appunto . Ovviamente questa è solo un’ impressione data da un contatto avvenuto non in montagna ma bensì in montagnetta per ovvi motivi 🙂

Ultima nota positiva di rilievo : il tubo reggisella e lo standover sono sempre molto bassi permettendo così l’ uso di reggisella telescopici sino a 200 mm di escursione su tutte le taglie !

Cosa ci è piaciuto di più oltre al colore lavanda ? Sicuramente il nuovo motore Shimano EP8 con la nuovissima release di firmware che l’ ha molto migliorato in confronto alla versione precedente di pre-serie che avevamo provato in passato . Potentissimo e parco nei consumi ! Mi spiego meglio come segue : il nuovo EP8 ha la possibilità si settare 2 diversi profili d’ utilizzo personalizzabili a piacere con l’ APP di Shimano E-Tube . Il profilo 1 è quello full power mentre il profilo 2 è più parco nei consumi e spinge un pochino meno anche se è il mio preferito e ci potete fare praticamente tutto . Inoltre è possibile personalizzare in toto i due profili in ognuno dei 3 livelli d’ assitenza (Eco, Trail e Boost) su assitenza, coppia e reattività alla spinta sul pedale. Non ho avuto il tempo di personalizzare i 2 profili e mi sono affidato ai settaggi di serie . Posso dirVi però che con il profilo 2, quello parsimonioso, ho percorso quasi 40 Km con 1050 Mt.+, quasi sempre in Trail e Boost sulle ripide salite della montagnetta, consumando solo il 62% della batteria da 630 Wh alla sua prima ricarica e con temperature vicine allo zero !!! Se avessi ridotto l’ assistenza e la coppia a 60Nm tanto per non fare paragoni con chi sostiene che con una batteria da 360Wh può percorrere sino a 4000 Mt+ cosa avrei potuto fare con la batteria da 630 Wh ? Lascio a Voi immaginare : 4000, 5000, 6000, 7000 Mt+ … ma forse e anche no visto che mi sarebbe girata sicuramente la testa a furia di fare il criceto in montagnetta 🙂 🙂 🙂

Come detto la potenza del motore è veramente tantissima e si avvicina allo Specialized 2.1 e la sensazione è di avere una specie di “Shuttle mode” perenne oltre ad avere una sensazione di fluidità e costanza di spinta molto dolce e naturale veramente encomiabile . Insomma chapeau Shimano : very nice job !!! In profilo 1 poi la sensazione di spinta cresce ancora pur mantenendo una fluidità da riferimento . Con l’ assistenza impostata su Trail si può fare praticamente tutto senza mai toccare il comando remoto : una specie di E-MTB se vogliamo paragonarlo a Bosch . Il rumore che è presente, come ormai in tutte le unità motore moderne,  è però molto basso e non aumenta di molto con l’ aumentare delle rotazioni risultando così al mio orecchio (sono un pochino sordo) molto basso e poco fastidioso .

A prima vista l’ unica implementazione che vorrei è la possibilità di passare tra i 2 profili d’ utilizzo on fly e cioè durante la pedalata perchè il doversi fermare per entrare nel menù opzioni del display equivale praticamente a tirare fuori di tasca uno smartphone come succede ad esempio con Specialized e vanifica in parte l’ ottimo lavoro fatto dai tecnici Shimano .

Quello che invece ci è piaciuto di meno sono le ruote mix (27,5″ & 29″) che riteniamo comunque inutili per l’ uso di noi persone normali e le due unità ammortizzanti che però avrebbero bisogno di un setting e di un rodaggio delle stesse ben diversi da quello fatto in fretta e furia in questi due giorni di test . A questo aggiungete che le unità ad aria sono fortemente influenzate dalle basse temperature di questo weekend e quindi ne riparleremo più avanti nel tempo .

Per finire direi bellissima (anche se ciò è del tutto soggettivo) , con un motore che probabilmente è il riferimento attuale e con finiture da perderci la testa !!!

In poche parole : Santa è sempre Santa !!!

Le light E-Mtb rivoluzione o innovazione ?

26 Ott 2020

Le light E-Mtb rivoluzione o innovazione ?

di Nicola Pellegrino

Il mercato E-Bike nei tempi recenti sta vivendo un periodo di fermento con sviluppi che si susseguono a ritmo serrato ed in pratica il biker moderno si trova a dover valutare nuovi prodotti ogni anno e l’obsolescenza che porta ad avere il timore che la bici che si ha sia “superata” è sempre in agguato, fondamentale perciò è saper valutare l’acquisto, analizzare il mercato sapersi far consigliare da gente esperta e soprattutto scegliere la bici adatta alle proprie esigenze, queste sono le basi per non sbagliare e soprattutto per trarre il massimo da ciò che poi andremo ad acquistare, quindi mai andare d’istinto ma ponderare il più possibile la scelta .

Sul mercato E-Bike attuale ci sono varie sottocategorie, quella delle Light E-Mtb verrà trattata in questo articolo, le bici in esame saranno (in ordine strettamente alfabetico) :

Lapierre Zesty AM, Orbea Rise , Rotwild RE375 e Specialized Levo SL

LAPIERRE ZESTY :

La prima bici è la Lapierre, una bici intesa prevalentemente come “shuttle bike” quindi di indole differente dalle altre ma la scelta è del tutto comprensibile poiché è stata la prima di un genere che da essa poi si è sviluppato ed ha virato più verso il trail biking puro come vedremo con le altre bici prese in esame .

La bici si presenta con un’escursione 160/150, le quote geometriche in taglia M (peso rilevato 18,2 Kg in taglia L) 430mm di piantone, 606mm di orizzontale, 445mm di reach, 607mm di stack, angolo sterzo 65,5°, angolo sella 75°, con carro da 435mm. Quindi una bici con quote adatte ad un utilizzo enduro considerando le sospensioni (FOX36 da 160mm e FOX DPS da 150mm). Il reach è nella norma per bici del genere mentre l’ angolo sterzo e sella sono ancora “contenuti” considerando poi le tendenze in divenire sul “long and slack” quindi sterzo aperto e piantone verticale .

Il motore è un FAZUA EVATION 1.0, il peso del corpo motore è 2.0kg la batteria da 252wh pesa 1.5kg e fornisce un supporto di 60Nm . Il voltaggio è 36v, il corpo batteria-motore è un tutt’ uno che può, all’occorrenza, venire separato e qualora si volesse il rider può scegliere di utilizzare la bici senza batteria (quindi senza assistenza)  ed avere in pratica una normale bici da enduro. L’autonomia è il tallone d’Achille della Zesty, il peso non proprio contenuto e soprattutto il motore-batteria con coppia espressa medio/alta e capacità batteria di soli 250Wh consentono di percorrere poco dislivello, in test (fonte EMTB-NEWS.DE) la bici con supporto massimo ha percorso 26.14 Km in 1.26 h e un dislivello di soli 498 metri, la nota positiva è la portabilità di un’eventuale batteria di riserva che porterebbe l’ autonomia ad estendersi ulteriormente .

Complessivamente una bici adatta a brevi giri enduro che per rapporto autonomia-peso si pone al di sotto delle concorrenti in esame ma è anche la prima uscita cronologicamente parlando .

SPECIALIZED LEVO SL:

La casa Californiana ha introdotto la versione SL della sua E-Mtb nel 2020 ma lo sviluppo del concetto è nato nel  2016 e sviluppato poi in seguito a numerosi test di durata e chilometri percorsi per ottenere il giusto compromesso tra peso ed autonomia . La piattaforma bici è quella consolidata della Levo, quindi ruote da 29 ed escursione da 150mm su entrambe le ruote, le geometrie sono per la taglia M: (peso rilevato 16.7 Kg in taglia L) 410mm di piantone, 597mm di orizzontale, 66° angolo sterzo, 75° angolo piantone, 435mm di reach, 606mm di stack, il carro da 437mm. I valori rispetto alla Lapierre sono più contenuti mettendo appunto in evidenza l’indole trail della bici che la rende adatta a chi, venendo dalla mtb non assistita, vuole avvicinarsi al mondo E-Bike optando per una bici che mantiene caratteristiche di bilanciamento pesi e guida simili ad una bici tradizionale . Il peso di Kg 16.7 consente di avere una dinamica di comportamento “accogliente”, che faccia sentire a proprio agio il biker in situazioni che su una E-Mtb più pesante possono risultare difficili da gestire se non si è abituati .  Spazi di frenata, comportamento dinamico e “giocoso” e agilità complessiva sono molto diversi da una Levo tradizionale – non per altro la differenza di peso è notevole  – ed infatti le due E-Mtb sono destinate a due utilizzi differenti .

Motore Mahle: Specialized distingue Turbo Levo e Levo SL in “quattro volte te” e “due volte te” per evidenziare l’indole delle due bici differente e su misura per l’esigenza dell’ Utente finale .

Il motore sviluppato con Mahle ha un peso estremamente contenuto 1.9kg il più leggero tra le bici prese in esame . La coppia espressa è di 35Nm con 240W e l’efficienza è di 48 volt il che lo rende estremamente contenuto nei consumi riuscendo ad ottimizzare l’assorbimento dell’energia dalla batteria di 320wh . Un range extender del peso di 1kg alloggiabile nel supporto borraccia consente di portare l’autonomia complessiva a 480Wh, sufficienti per un utilizzo trail su percorsi articolati su alto chilometraggio/dislivello . La batteria non è removibile, al fine di contenere i pesi il più possibile, e questo a mio avviso ne limita la praticità qualora la si volesse caricare in casa. L’autonomia espressa della Levo SL (fonte E-MTB-NEWS.DE) con range extender, quindi con batteria complessiva da 480wh è stata di 57km 1136mt di dislivello in 2h 30 in un circuito percorso al massimo dell’assistenza, quindi una resa più che sufficiente qualora, usandola con assistenze minori, si voglia percorrere un itinerario che prevede maggiore kilometraggio/dislivello .

Complessivamente la Levo SL è una trail bike pura che incarna i valori della Stumpjumper originale della casa Californiana, solo portati ad un upgrade “non invasivo” per chi dovesse ritenere l’assistenza di un motore esuberante come può essere quello della Turbo Levo, una bici che si pone appunto tra Stumpjumper e Turbo Levo e prende da entrambe caratteristiche mirate per soddisfare il trail biker puro che vuole provare qualcosa di nuovo .

ROTWILD RE375 e ORBEA RISE

Le ultime due bici preferisco prenderle in esame insieme, perché hanno elementi in comune utilizzati in maniera differente con risultati differenti.

La Rotwild RE375 è una bici estremamente raffinata e come soluzioni tecniche e chi conosce il marchio Tedesco sa bene quanto siano alti i loro standard qualitativi, hanno introdotto la serie light con bici appunto dal peso contenuto e rivolte ad un utilizzo prevalentemente trail, quindi mirato alla percorrenza di itinerari con alto kilometraggio/dislivello.

Per la Rotwild le geometrie sono le più “moderne” se vogliamo considerare le ultime tendenze in materia, anche se il piantone da 440mm in taglia M è l’elemento più conservativo, considerando poi il reach da 460mm, l’angolo piantone da 77° e soprattutto l’angolo sterzo da 63,5° .

La Rise di Orbea invece ha 419mm di piantone con 77° di angolo, 66° di angolo sterzo  e 450mm di reach quindi generalmente meno spinta della Rotwild ma con piantone più corto (nota a mio avviso positiva per avere una distribuzione del peso più basso e di conseguenza un migliore bilanciamento in curva) .

Orbea vs Rotwild caratteristiche tecniche generali :

Entrambe le bici in taglia L pesano 18 kg, entrambe le bici hanno una batteria dalla capacità simile 375Wh per la Rotwild, 360Wh per la Orbea .Sul motore le differenze si fanno particolarmente interessanti ed è per questo motivo che ho preso in esame le due bici insieme e non ciascuna separatamente, il motore è il nuovo EP8 Shimano in versione “standard” su Rotwild e in versione “RS” su Orbea. Strutturalmente i motori sono identici come pesi ingombri, la differenza sostanziale è nella coppia espressa, 85Nm nella versione base 60Nm nella versione RS . Le configurazioni tramite APP sono personalizzate in base alle esigenze di Orbea ed i firmware sono specifici per quel motore, inoltre non è possibile convertire a 85 Nm il motore RS . Scelta condivisibile da parte di Orbea ? Non saprei, il discorso sul quale vertono le E-Mtb light è il range mantenendo bassi i pesi del mezzo e diminuendo gli attriti il più possibile, con l’ Orbea in parte ci riescono ma a mio avviso togliendo coppia al motore ne hanno limitato l’ elasticità di utilizzo e quindi la versatilità, su un motore che già nella versione base (che potrebbe comunque essere “castrato” a 60 Nm tramite APP Shimano originale) ha dimostrato di spingere a sufficienza rispetto alla concorrenza (Bosch CX Gen4, Brose  e Yamaha) ma anche in prove comparative di consumare di più .

Maggiore coppia quindi non significa obbligatoriamente maggiori consumi, la dimostrazione è la prova comparativa (fonte EMTB-MAGAZINE.DE) tra Rotwild e Orbea là dove la prima percorre 37km con 721 Mt+, sempre alla massima assistenza, mentre la Orbea ne percorre 34.28 con 610 Mt+ ! Quindi minore chilometraggio e minore dislivello con pesi simili e batterie con capacità simile . Questi  dati comparativi dovrebbe far riflettere sul perché Orbea semplicemente non ha impostato una modalità a 85nm con settaggi custom ma usando sempre un motore con configurazione originale . I risultati non giocano a favore di questa scelta, se poi vogliamo dirla tutta, lo Shimano non è il motore più adatto allo scopo poiché alla fine il confronto con la Levo SL è purtroppo imbarazzante (57 km 1136 dislivello) anche se effettuato con 2 batterieper un totale di 480Wh (batteria interna più range extender) . Certamente la coppia sul motore della SL è minore ma il consumo dato dall’ assorbimento energetico quindi l’efficienza del motore sulla SL è sicuramente migliore 48v vs 36v. Un motore sviluppato ad hoc per un utilizzo purtroppo non può mai venire superato in efficienza da un altro destinato ad altro ed adattato . In questo caso Specialized propone la bici più adatta per l’utilizzo trail puro e dimostra di avere il know-how necessario per essere la Factory di riferimento in tal senso con la sua LEVO SL .

IN CONCLUSIONE …

Le light E-Mtb sono innovazione o rivoluzione ? Rivoluzione sicuramente no, innovazione ed evoluzione si . Il mondo E-Bike è in continuo sviluppo e le tipologie di Utenti sono sempre più variegate, chi ha bisogno del “feeling” di una mtb tradizionale vede nelle light E-Mtb la giusta strada, una bici leggera esteticamente familiare nelle proporzioni a una mtb e non invasiva nell’azione del motore . Io non credo il mercato si svilupperà solo in tal senso, anche le power E-Mtb si evolveranno diminuendo pesi ed ingombri e ci si troverà ad un punto di incontro tra le due tipologie di bici che porterà a stabilire il compromesso ideale tra peso e capacità della batteria, ma ora è ancora troppo presto anche se quello a mio avviso è l’ obbiettivo .

Tra le bici prese in esame a mio avviso la Specialized LEVO SL è stata la più convincente, la casa Californiana ha dimostrato di saper far valere le sue idee e renderle uno standard sul mercato contribuendo in tanti casi all’ evoluzione di tutto il mondo bici e non solo nel settore E-Bike, dove in pratica con la LEVO ha stabilito un’eccellenza alla quale tutti prendono riferimento . La capacità progettuale in base alla quale un telaio, un motore e una batteria vengono ottimizzati per ottenere il miglior compromesso tra peso ingombro ed efficienza è un risultato al quale solo Specialized è riuscita ad oggi ad arrivare e, bisogna dargliene atto, è solo un’ Azienda con quel “potere”  (fatturato, investimenti e ricerca) che ha la possibilità di concretizzare certi progetti e renderli reali .

First ride nuova Focus Sam2 2021

10 Set 2020

Circa 10 giorni fa ricevo una mail dagli amici di Focus Italia in cui vengo invitato a una e-ride a Mezzana (TN) nella magnifica Val di Sole denominata eMtb Luxury Experience. Ovviamente , dato il poco tempo a mia disposizione in questo periodo di super lavoro, contatto subito l’ amico Lele per sapere di cosa si tratta . Mi viene confermato che potrò provare la nuova Sam2 e quindi decido subito di partecipare all’ evento ! A questo proposito vorrei ringraziare tutto lo staff Focus Italia per la realizzazione di questo magnifico evento e in particolar modo Enrico che ha sopportato tutte le mie richieste con infinita pazienza, Riccardo per la perfetta messa a punto della mia Sam2, John la nostra guida per averci preparato un magnifico percorso e infine il buon Lele e tutto lo staff Focus che mi hanno badato ed accudito per ben 2 giorni 🙂

Quindi Mercoledì mattina carico la mia borsa con tutta l’ attrezzatura necessaria nel baule della 595 e parto alla volta di Mezzana . Il viaggio è sempre adrenalinico con la 595 che ritengo sia uno dei giocattoli più divertenti della mia lunga storia di guida di autovetture di tutti i tipi : in meno di 3 ore sono a Mezzana . Arrivo e la vedo subito : la Sam2 nella sua discreta ma bellissima livrea beige è già li ad aspettare i partecipanti all’ evento . I dati geometrici mi lasciano un pò perplesso e alzando la “bimba” mi viene un coccolone : ma quanto pesa questa E-Mtb ? Penso e ritengo che siamo sopra i 25 Kg. – non ho con me una bilancia – e quindi rimango un pò perplesso ma ho imparato a mie spese nel tempo a non giudicare mai sulla carta o semplicemente guardando una bicicletta a trarre conclusioni affrettate perchè ho spesso commesso errori, così facendo, dovendo poi ricredermi e chiedere scusa all’ atto della prova dinamica . La serata poi trascorre in piacevole compagnia tra racconti e condivisioni delle proprie esperienze con gli altri partecipanti all’ experience .

Giovedì mattina ritrovo alle ore 10:00 presso il centro Promescaiol di Mezzana in attesa del trasferimento in elicottero al campo base situato a circa 1600 mt. di quota dove troveremo le “bimbe” ad attenderci . Veniamo presto organizzati in gruppi da 5 persone e con una divertente rotazione di circa 5 minuti raggiungiamo il campo base . Ultime settaggi e preparativi della Sam2 e in breve sono in sella .

Partiamo in salita su strade bianche e saliamo per circa 700 mt. Il motore Bosch CX Gen4 della Sam2 da me ben conosciuto spinge fluido e con buona potenza e conoscendolo sin troppo bene decido di usare assistenze alte (E-Mtb in particolare) che mi permettono di tenere il passo allegro del gruppo con facilità insieme all’ amico Francesco e all’ amico Davide che dice di essere alla sua prima esperienza in Mtb in un bosco . In meno di un’ ora di pedalata siamo all’ inizio dei trails veri e propri. Ancora un tratto in leggera salita con alcuni passaggi tecnici semplici su roccie da scavalcare che mi permettono sin da subito di valutare la bontà del sistema F.O.L.D. ® di Focus coadiuvato dall’ ammortizzatore Fox Van a molla della mia Sam2 6.9 : lavora veramente alla grande ! Il primo singletrack in discesa poi su un fondo bellissimo da sottobosco mi fa subito ricredere sul peso percepito ieri della Sam2 : in movimento sembra quasi magicamente sparire e la Fox 38 Factory all’ anteriore con l’ ammortizzatore a molla posteriore creano un vero overcraft che passa su ogni cosa !!!

La prova prosegue poi su sentieri con forti pendenze, tornatini in contropendenza, prati dove scegliere la linea a piacimento, scale e quant’ altro che mi regalano circa due ore di grandissimo divertimento . La Sam2 è impeccabile e nonostante le ruotone da 29″ gira anche sullo stretto con grande facilità grazie ad un insieme ben bilanciato e a dispetto del suo peso comunque rilevante : magia della scelta dei componenti sospensivi e dell’ equilibrio generale della bicicletta . Insomma grandissima sicurezza e divertimento assicurato per chiunque a patto di tenere le ruote attaccate al terreno poichè nella ricerca di eventuali manovre aeree il peso è avvertibile come del resto per tutte le realizzazioni sul mercato per E-Mtb di qesta fascia che, allo stato attuale ritengo siano la Specialized Kenevo, la Mondraker Level e questa nuova Sam2 . Abbiamo quindi trovato una seria alternativa alle concorrenti sul mercato ? Io personalmente ritengo proprio di si anche se ovviamente mi riservo di provare ancora la mia Sam2 sui miei sentieri dove è per me molto più facile avere impressioni reali vista la grande quantità di riferimenti che ho sui “miei trails” 🙂

Per finire le versioni della Sam2 sono solamente due con colorazione unica : la versone denominata 6.9 che è montata con sospensioni Fox 38 Factory anteriore e ammortizzatore Van a molla, gruppo Shimano XT con freni a 4 pistoncini, ruote con mozzi Novatec e cerchi RaceFace AR30, reggisella Fox Transfer Kashima e attacco manubrio C.I.S. con passaggio integrato dei cavi . La versione 6.8 invece utilizza sospensioni Rock Shox Zeb all’ anteriore e ammortizzatore Super Deluxe Select ad aria, gruppo Sram GX con freni Sram Code, ruote con mozzi Novatec e cerchi Focus, reggisella Kindshock Rage-i e anch’ essa attacco manubrio C.I.S. integrato . Ultima particolarità, ma non per questo meno importante, il flip chip posizionato nel carro che permette di variare le geometrie e di usare quindi formati di ruote 29″ (nativo), 27,5″ oppure mix (29″ ant. e 27,5″ post.) . Per tutti i dettagli tecnici completi e i prezzi, che io ritengo molto competitivi, Vi rimando ovviamente alla pagina ufficiale di Focus Italia .

A questo punto, entusiasta della prima uscita con questa bellissima e divertentissima Sam2 – non vedo l’ ora di averne un esemplare tutto mio ma spero di non dover attendere molto vero Lele 🙂 – non mi resta che ricaricare la borsa sulla 595 e rientrare in tempo record a Milano per scrivere quanto sopra . Grandissima esperienza e grandissimo divertimento : grazie Focus Italia !!!

 

 

 

Equilibrio & Forma – Prova della Santa Cruz Heckler CC XO1

05 Giu 2020

Equilibrio & Forma
Prova della Santa Cruz Heckler CC XO1 di Ezio Freakrider Baggioli

Nonostante si cerchi attraverso la progettazione e le conseguenti simulazioni tridimensionali di raggiungere lo scopo previsto, quasi fosse un miracolo della creazione, il risultato va ben oltre le aspettative, il che mi fa credere nella casualità. Ho avuto negli anni fulgidi esempi in disparati campi, dallo sci alle motociclette passando per la meccanica pura e la Santa Cruz Heckler CC rientra in questa casistica. Indubbiamente i machinatores che le hanno dato vita di passione ne misero a secchiate in fase di studio: il risultato è una E-bike di raro equilibrio, in termini di design e sopra ogni mia aspettativa nel compendio che più mi interessa, la guida.

Oggi Gianni mi ha concesso una giornata di prova ed ho provato la Heckler CC in un ambiente a me familiare dove mi salutano anche i sassi messi a termine dei boschi. Scrivo poco sopra di design: qui siamo di fronte ad un prodotto di alta gamma, dove il Family Feeling è il filo conduttore nella scelta stilistica. La cura costruttiva è evidente nelle finiture e nella scelta dei componenti, dominati da un manubrio quasi flat da 800 mm in carbonio che risulterà essere la barra perfetta nei cambi di direzione; plauso alla sella WTB con logo Santa Cruz che oltre che ben disegnata si è rivelata alquanto comoda. Personalmente apprezzo la sobrietà nelle linee e nella colorazione a bassa visibilità, un bel nero che nero non è la rende assai piacevole ricordandoci che è la sorella sotto estrogeni della Bronson. Dopo aver espletato le operazioni di rito, taratura delle sospensioni, altezza sella, montaggio pedali ed essendo un bastian contrario girato i freni, ho acceso l’unità Shimano E 8000. Apprezzabilissimo il display multifunzione che rimane una chicca in termini di informazioni e per nulla invasivo, ben protetto da eventuali urti a lato destro dell’attacco manubrio. Le impostazioni di assistenza sono medium per ECO e TRAIL mentre per il BOOST è settato in high, si riveleranno perfette per il mio stile di guida tanto che non ho quasi mai usato la funzione BOOST, per quanto non mi sia risparmiato salite molto impegnative sia per il fondo sia per il dislivello non ne ho sentito la necessità grazie alla fluidità dell’erogazione del motore. Fatti i primi metri devo essere chiaro in questo, mi sembrava di essere stato in sella da sempre sulla Heckler: gli appoggi perfetti, il giusto carico sul manubrio mi ha dato quella confidenza che si sarebbe espressa immediata appena messe le ruote sul sentiero. Sono stato un fiero sostenitore delle ruote da 29 pollici da quando ebbi la prima Ellsworth Evolve, ma sono molto felice di pedalare bici con ruote da 27,5, nonostante il mercato spinga sulle 29, perché offrono con le moderne geometrie una maneggevolezza invidiabile, complici di una coppia di pneumatici Maxxis DHR II assai sinceri nelle reazioni sulla nostra Heckler. Altro dettaglio non da sottovalutare il peso: 21kg, cosa che la rende di una reattività da invidia, siamo sotto di 4 kg rispetto alle altre concorrenti che a fine giornata si sentono tutti. Prima sorpresa: l’efficienza della sospensione posteriore che in salita copia anche quegli ostacoli che ti intimidiscono, premesso che pur avendo gli inserti nei pneumatici volevo evitare qualsiasi problema di sorta con forature, sono stato su pressioni sostenute quindi i pneumatici non si spalmavano per niente, eppure la perfetta simbiosi delle sospensioni ha fatto il suo dovere. Per essere chiari, la prova di oggi è stata su terreni difficili dato la pioggia della notte e se amate il viscido, ne avevo da regalare a piene mani. Equilibrio in tutto, le sospensioni e le geometrie unite al miglior VPP che ricordi ti costringono al sorriso in ogni situazione: nelle curve e controcurve, salita e discesa tecnica, cambi di direzione improvvisi si rivela una macchina perfetta. La Fox 36 Performance di serie gode di una fluidità di scorrimento da riferimento con un idraulica molto sensibile e con regolazioni altrettanto precise. Dubbi ne avevo? Certo che sì. Maneggevolezza estrema, guidabilità inimmaginabile nello stretto prevedevo una certa instabilità nel veloce, avendo spulciato i dettagli tecnici delle geometrie. Come da chiosa iniziale qui il caso, le intuizioni degli ingegneri o entrambe le cose hanno fatto sì che mi sono trovato tra le gambe una macchina perfetta. Con i dovuti distinguo, di fatto il motore c’è, mi sembrava di avere una muscolare: anche i bistrattati freni SRAM CODE mi hanno regalato un’ottima sensazione di potenza e presenza nelle staccate più violente e i cerchi in carbonio quel gradino in più nel determinare la linea e la conduzione della stessa. Il cambio uno SRAM XO1 Eagle a 12 rapporti sempre preciso e spaziato giusto, non sono mai andato oltre il 42 anche nei tratti che avevo inserito nel giro prova dove il ribaltamento ti attende dietro ogni curva. Essendo un E-Bike devo evidenziare i consumi: non sono un fuscello, sono alto un metro e novanta e in assetto da Biker sono più vicino ai 100 che ai 90 kg. Quindi avendo percorso 30 Km con circa un ottocento metri di dislivello, tornare con più del quaranta per cento di batteria che ha 504 Wh di capacità ritengo che sia ottimo. Onestamente non sento la necessità di averne di più, in tal modo i pesi si abbassano ed il divertimento si impenna. La Heckler si è dimostrata una perfetta All mountain, confortevole, precisa e graziata da un equilibrio inusuale alle altre. Sono sempre stato scettico nei riguardi dei prodotti Santa Cruz, non ho mai apprezzato il sistema VPP e qui mi sono ricreduto, mi cospargerò il capo di cenere dopo aver goduto della sua efficienza. Il motore Shimano E 8000 a parte una certa rumorosità che accompagna il funzionamento si conferma affidabile e generoso. Più spingi cercando il limite e lo stato di gioia aumenta: diventare un tutt’uno con lei è immediato. La ritengo una delle doti per la quale un Biker dovrebbe sceglierla visto che quello che cerchiamo è il divertimento: pagare per soffrire mi sembra degno solo di Leopold Von Sacher-Masoch a cui dobbiamo la ricerca del piacere attraverso il dolore. Io sono epicureo… certo il prezzo è un dettaglio non indifferente, siamo in un ambito di alta gamma e la concorrenza offre prodotti equivalenti ad un costo spesso più elevato. Sinceramente non provo della sana invidia per chi può permettersi la Heckler CC: sono solo felice perché continuerà a sorridere come mi è successo oggi.

Prova nuova Fox Float 38

04 Giu 2020

Presentata durante il periodo di lookdown – cosa che ha suscitato negli addetti ai lavori non poche perplessità – la nuova serie di forcelle Fox 36 , 38 e 40 è stata completamente rinnovata sia nel disegno dei foderi che nella parte idraulica con l’ aggiunta della valvola VVC . Per la descrizione tecnica della forcella e delle novità Vi rimandiamo al sito ufficiale Fox al seguente indirizzo : https://www.ridefox.com/family.php?m=bike&family=38 . Oltre agli steli da 38 mm, al nuovo casting dei foderi e alla già citata valvola VVC possiamo riassumere le novità salienti con il nuovo sgancio rapido flottante, le valvole per scaricare il surplus di pressione aria nei foderi, il nuovo sistema che porta l’ olio alle spugnette di lubrificazione sotto i paraolio e il nuovo parafango opzionale che si fissa direttamente all’ archetto

La nuovissima 38 è stata da molti considerata la vera novità della nuova serie anche se in effetti sia la 36 che la 40 risultano completamente ridisegnate e quindi completamente nuove . La fattura del prodotto è come sempre curatissima e la qualità meccanica superba, forse al limite del maniacale ! Imponente nella sua struttura dove spiccano gli steli da ben 38 mm. come suggerito dal nome del prodotto stesso.

Ma veniamo alla prova effettuata su diversi terreni (tra cui una scala infinita in pietra naturale lunga quasi 8 Km) in quest’ ultimo mese come segue. La 38 è molto rigida e quindi all’ apice della guidabilità per una mono piastra. La differenza con la 36 – anche se per onestà devo dire che non ho ancora provato la nuova 36 con i nuovi foderi ridisegnati – è subito percepibile mentre il peso, di circa 400 grammi superiore alla 36, sulla E-MTB dove l’ abbiamo montata non è così evidente nella conduzione della E-MTB stessa . Magnifica la scorrevolezza degli steli Kashima sin dal primo utilizzo e superlativa la prima parte di corsa che copia anche le foglie come si usa dire 🙂 La progressività poi è assicurata dalla cartuccia Grip2 con la nuova valvola VVC e non abbiamo mai dovuto affrontare fondi corsa durante il nostro utilizzo con taratura della molla ad aria leggermente inferiore (- 5 psi) al minimo consigliato per il nostro peso .

Veniamo ora alle domande che molti ci hanno rivolto durante le nostre uscite con il nuovo gioiello di Fox.

Vale la pena di scegliere la 38 al posto della 36 ? A mio personalissimo parere su una E-Bike, dove il fattore maggior peso è meno rilevante, sicuramente si vista la maggior rigidità e guidabilità della 38 . Probabilmente su una Enduro tradizionale invece il maggior peso dovrebbe far riflettere in confronto alla nuova 36 che immagino sia anch’ essa molto più performante dell’ attuale versione (spero di poterlo verificare al più presto) .

La 38 sostituisce una forcella a doppia piastra ? Sinceramente avendo usato già dallo scorso anno una doppia piastra su una Kenevo Expert non mi sento di dire che la 38 abbia la stessa rigidità e caratteristiche di guida di una doppia piastra e personalmente propendo per la doppia piastra visto anche il minor affaticamente che ho con la doppia …

Insomma per terminare un prodotto molto ben costruito, come d’ abitudine per Fox, che diventa in questo momento un riferimento di rigidità e conducibilità per la categoria mono piastra nel mercato attuale !!! Se poi ne fate un discorso puramente estetico la forcella è imponente e bellissima !!! A ognuno di noi la scelta della forcella che meglio si datta alle proprie esigenze e il fatto che il mercato ci permetta di scegliere è sicuramente un vantaggio non da poco per tutta l’ Utenza .

 

Pro-Meide – Ovvero l’ epica al tempo della MTB – Prologo

03 Mag 2020

Pro-Meide – Ovvero l’epica al tempo della MTB
di Ezio “Freakrider” Baggioli
Prologo : tutta colpa di Horst

AMP Research. Immagino che questo nome non evochi nulla alla maggior parte di chi oggi scorrazza in MTB che sia muscolare o assistita. Per chi come me è una cariatide di questo divertimento, poi mutatosi in un affare economico di migliaia di bilioni in qualsiasi moneta voi lo declinate, il suo fondatore Horst Leitner ebbe un intuizione che avrebbe segnato lo sviluppo delle bi-ammortizzate fino ad oggi: brevettò uno snodo sui foderi bassi che svincolava la sospensione dalla frenata, cosa che con i carri monocross e con i carri URT (per chi non ha mai avuto la disgrazia di possedere una bicicletta con tale innovazione ingegneristica degna del Bike Razzie Award, io ebbi per qualche tempo una Klein Mantra tanto affascinante quanto inguidabile), deve sapere che permetteva ampie escursioni per quei tempi fino ed oltre i 150mm fin tanto che si stava in sella: appena ci si alzava per affrontare una discesa, il carro che era solidale al movimento centrale ma svincolato dal telaio trasformava il vostro “feather bed” in una putrella su due ruote. Per fortuna ebbero vita breve e nessuna lacrima sgorgò (ad imperitura memoria) sulle sospensio che imperavano a quel tempo. L’ Horst trasformò la guida da un cocktail di scossoni, imprecazioni e dolori cervicali in un inizio di confort e precisione in discesa e soprattutto sulle salite. Gli anni ottanta furono per lo sviluppo, momenti frenetici con innovatori spesso visionari che arrivarono da un settore in crisi: le costruzioni aeronautiche.

La California era uno stato dove la Silicon Valley non era ancora il cuore economico della regione, la globalizzazione si affacciava nelle americhe con il NAFTA, avevamo il made in Taiwan e le ristrutturazioni industriali negli Stati Uniti iniziavano a cambiare volto al paese.
La rete di fornitori delle aziende costruttrici di velivoli iniziò a vacillare ed il nuovo mercato aperto dalla MTB, permise di riversare le competenze tecnologiche nelle lavorazioni dell’alluminio (la scelta di AL 6061 lega usata fin dagli anni quaranta in campo militare è dovuta solamente alla reperibilità sul mercato ed alla conoscenza dei processi produttivi) e dei componenti quali pedivelle, serie sterzo, sospensioni: la fase 2.0 era iniziata. In questo calderone di competenze si mescolarono l’ardore dei padri del movimento, quali Tom Ritchey, Gary Fisher, Joe Breeze, Joe Murray, Charlie Kelly al raziocinio ingegneristico di Gary Klein, John Parker, Bob Girvin, Doug Bradbury, Horst Leitner, Richard Cunningham (non è il protagonista di Happy Days ma fondatore di Mantis e editore spirituale di MBAction, la bibbia del movimento nel 1986) e la visione più commerciale, rivelatasi vincente di Myke Sinyard anticipato di qualche anno da Richard Burke e Bevel Holl. Qui da un movimento di flowers power ad industrializzare il giocattolo sono passati poco meno di dieci anni.

In quegli anni ero stato tre volte negli Stati Uniti: la prima volta nel 1984, passai un mese a Laguna Beach CA, cittadina sede prescelta di un noto marchio sportivo fondato da Yvon Chouinard Deus della golden age in quel di Yosemite e innovatore del clean climbing. Per me, umile ragazzotto Italiano fu un viaggio catartico: spiagge, surf con tutto il suo corollario dove non ci si faceva mancare nulla. Vidi per la prima volta queste strane biciclette che pedalate dai surfisti annoiati dall’attesa dell’onda perfetta, scomparivano rapidamente lungo i pendii collinari che abbracciano la costa oceanica. Fu un amore travolgente: chiesi al mio ospite Bob, telemarker e surfista che conobbi durante un ravanage selvaggio al Piz Agnell in Engadina, mentre facevo i primi esperimenti di Telemark in fuoripista e da Lui venni soccorso in crisi glicemica, dove potessi trovarne una. Abbiamo la stessa stazza Bob ed io, lui aveva una Breeze, non si chiamavano ancora MTB, la chiamava Klunker. “Uomo, è come sciare Telemark ti butti giù e trovi la tua linea. In salita uguale: sali secondo la tua condizione come quando si fa sci alpinismo, non si sale per arrivare in vetta, lo fai per scendere più velocemente che puoi. Birra ed accessori all’inizio ed alla fine, che altro dirti? Provala e non scenderai mai più di sella…” mai parole furono più profetiche.

Nel 1987 mi abbonai a MBAction di cui ansiosamente attendevo la copia mensile per leggere di quel mondo che qui in Italia appariva sfocato: solo la rivista naturalistica “Airone” nel 1985 usci in prima di copertina con la Cinelli Rampichino, secondo loro la prima MTB prodotta in Italia, ma come scoprii molti anni dopo non era la prima. Forse dal punto di vista industriale, ma qualcun altro a Milano aveva precorso i tempi, ma lo scopriremo a tempo debito. Rapidamente mi passarono tra le gambe bici totalmente rigide, i puntapiedi, la prima front suspended con forcella Rockshox con ben 50 mm di corsa, freni Grafton, componenti Control Tech, la prima bici in alluminio, i primi pedali a sgancio SPD, le prolunghe al manubrio, i caschi ETTO, gli occhiali Oakley Eyeshade, la prima bi-ammortizzata Manitou FS con la corsa esagerata di 80mm F/R. Nel 1992 un incidente in montagna mi mise fuori gioco per quasi tre anni, lasciai la bicicletta e gli sci in cantina, le priorità erano altre in quel periodo volevo riprendere l’uso della gamba destra che mi rese per tutto quel periodo invalido, sognavo di riprendere a sciare Telemark e ero passato alla bici da strada, come strumento di recupero pari alle estenuanti e noiose vasche in piscina. Non ho mai amato il cricetismo ed obbligato a scopo terapeutico ad applicarmi tornai in sella ad una Breeze Lightning, in sano CrMo Tange con forcella Answer Manitou da 50 mm, sui sentieri innevati a La Punt; le Fat non esistevano… Compresi cosa provasse l’Araba Fenice risorgendo dalle proprie ceneri, ero vivo e vegeto. Rincontrai Bob alla seconda edizione della Skieda a Livigno a Marzo del 1996, dove tra una birra, tenda sudatoria e qualche calumet della pace ci ritrovammo a parlare dell’attività estiva prossima ventura.

“Freak, la devi provare credimi. E’ la miglior MTB che potresti pedalare ora, poche balle, lo scrive anche Jimmy Mac e se lo scrive Lui, lo conosci sei abbonato da dieci anni alla sua rivista. Leggi cosa ne pensa Zap Espinosa, sono le colonne d’Ercole del nostro mondo. AMP B3, segnatelo non so se la troverai qui in Italia ma questa è la tua bici.”
In quel periodo cambiavo le bici come i managers di cambiano la cravatta, me la studiai leggendo e rileggendo la prova su MBAction, guardando i freni a disco e le sospensioni, di sua produzione, con una forcella F3 a parallelogramma da 50mm, corsa al posteriore di ben 2,75 pollici che in millimetri sono circa 70 mm. Approfittai di un viaggio di vacanza nei parchi dell’ovest negli Stati Uniti (la mia prima volta a Moab) per far visita a Bob a Laguna dove si trovava ai tempi AMP Research. Sicché tramite Bob feci un incauto acquisto in un noto negozio della zona: tornai in Italia con un telaio B3 in valigia, compreso di freni a disco idraulici a comando meccanico, una summa di miniaturizzazione meccanica. Ne andavo fiero, tutta polish alluminio allo stato dell’arte.
Ero quello che oggi definiremmo Poser… La pedalai abbastanza per capire che quello che arriva dopo è sempre il miglior prodotto.

MBAction era un influencer sottile e faceva leva sull’umano peccato di possedere un giocattolo nuovo, per cui appena presentata la B4 che rivoluzionava l’estetica del prodotto, mi misi alla ricerca di quest’ultima. Scrissi una commovente lettera ad AMP Research che mi rispose in tempi direi brevi, dove mi veniva comunicato che in Sud Tirolo, un parente del CEO tra le altre attività di famiglia aveva intrapreso l’importazione dei telai e componenti, lasciando in calce indirizzo e numero di telefono. Preso dal sacro furore dell’acquisto contattai l’importatore che stava in Val Pusteria, dove avevo parecchi amici legati al mondo del telemark e come sempre non sono mai sei gradi di separazione: conosceva bene una mia amica farmacista. Credo che dopo la mia telefonata dove lo travolsi di parole in libertà, volesse non più essere raggiungibile, ritirarsi in un maso con le vacche, ma fu piacevole ricevere una sua sua telefonata dove mi offriva il primo esemplare europeo, a suo dire, della nuova B5 che avevo visto sempre sulla Bibbia. 120mm di corsa al posteriore, forcella BLT F4 con ammortizzatori minion idraulici corsa monstre di 80 mm, steli del carro in carbonio e triangolo di un bel solar Yellow con torretta reggisella nero opaco. La volli così fortemente che messo giù il telefono prenotai un auto, in quel periodo utilizzavo solo la moto per muovermi salvo noleggiarla per andare a sciare, e andai un sabato mattino a ritirarla, giusto per inghiottire 800km tra andata e ritorno, ma al cuore non si comanda.

Si dimostrò per quei tempi una bicicletta discreta, nonostante la corsa ti facesse pensare ad una schiacciasassi, si palesò essere quella che oggi definiremmo una Trail Bike: non aveva un angolo di sterzo accentuato, abbinato ad un attacco manubrio da centoventi millimetri non ti dava una gran confidenza in discesa, ma a quei tempi non si era ancora evoluto uno standard discesistico, eravamo nel basso medioevo della MTB. I dischi venivano guardati con sospetto, avevamo guarniture a tre corone con cambio ad otto velocità, manubri che quando raggiungevano i cinquecentottanta millimetri erano considerati larghi…
MI piaceva, non c’è che dire, come quelle modelle dai tratti forzati che durante la settimana della moda stravolgevano gli sguardi dei Milanesi allupati all’aperitivo in Corso Como. La trovavo intrigante così snella un poco anoressica, con i contrasti di colore e quella apparente fragilità, che poi tanto apparente non si rivelò.
Infatti la settimana precedente ad una delle Granfondo della mitologia fuoristradistica Italiana: La Via Dei Saraceni in quel di Sauze d’Oulx alla quale ero iscritto, durante un giro a San Genesio in un tratto di discesa l’ammortizzatore passò a miglior vita. Il suo essere anoressico non lo facilitò nel suo lavoro ed io rimasi appiedato… Lascio al vostro buon cuore i possibili commenti che avendo scomodato tutti gli dei dell’Olimpo e non solo, nella loro grazia divina allietarono i cinghiali nella macchia. Sconsolato, decisamente alterato non potei altro che tornare mesto a casa, impugnare la sacra Bibbia della MTB e cercare informazioni. Considerate che la rete non è quella che conosciamo ora, non c’erano tuttologi affermati, forum o pagine dove setacciare informazioni, la carta aveva sempre il suo valore, le riviste anche in lingua italiana erano presenti; Tutto MTB e Bici da Montagna erano le fonti alle quali abbeverarsi, sempre che non avessi un abbonamento a MBAction… Cosi sfogliando compulsivamente trovai la soluzione tanto agognata: in verità il cugino del CEO, da me bombardato da telefonate che avrebbero provocato il suicidio di massa di intere colonie di lemming, mi disse “cerca l’importatore Italiano di un produttore di sospensioni che chiama Risse Racing Technology. Risse fa un ammortizzatore ad aria dedicato che risolve il problema, mi hanno scritto che funziona molto bene. Guarda, segnati l’indirizzo Pro-M di Giovanni Biffi via Lucillo Gaio, 7 numero di telefono 335 29…. Sta a Milano, anche tu se non sbaglio, vero? “

Mi sentii risollevato. Riposi il telefono, cercai con curiosità non morbosa qualsivoglia inserzione pubblicitaria di Pro-M sulle riviste, alla penultima pagina di una copia di Giugno di Tutto MTB trovai quello che stavo cercando. Pro-M importatore Mountain Cycle, Risse Racing Technology ect. ect.


33529…. squilla: al quarto squillo una voce nasale con un forte accento Milanese mi risponde: “pronto?!”
“Buongiorno, Pro-M? Sì, buongiorno mi scusi… Voi siete importatori Risse Racing Technology? Possiedo una AMP B5, ho l’ammortizzatore fuori uso e ne vorrei acquistare uno. Lo avete in casa?”
dopo una breve pausa la risposta.
“Sì, è a magazzino.”
“Benissimo! quanto costa?” eccitato dal poter rimettere in azione la bicicletta, risposi.
“Trecentosessantamila Lire” risposta fu mai cosi cristallina.
“Per ora grazie, lo prendo, posso passare domani? A che ora? Le potrebbe andar bene nel primo pomeriggio? Di chi dovrò Chiedere?”
“Chieda di Gianni Biffi, che sono io… arrivederci”

Pro-Meide – LIbro I – La genesi

02 Mag 2020

Libro I – Cap. I

Gli anni d’oro – La genesi

Correva l’Annus Domini 1997.

Il secolo scorso stava per volgere alla fine, Milano non sembrava per nulla preoccupata di questa “fin du siecle” anzi, tutto sembrava soto controllo: locali dell’aperitivo sempre pieni come i panini imbottiti, quelli che ti mangi fuori dallo stadio di San Siro e non ti chiedi che cosa ci sia dentro. I lavori stradali in Piazza della Repubblica che accompagnati da cartelli consolatori promettono l’apertura del passante ferroviario per Natale sono sempre causa di incolonnamenti e sicure incazzature con dei cordiali “vaffa” a chi con il solito GS con borse e baule e con calzino proteggi Church sul piede sinistro si piazza di traverso oltre la linea di arresto pronto allo scatto bruciante destinazione il Chiosco più “in” che si trovava Corso Sempione , visto che qui a Milano si va sempre di fretta, anche all’aperitivo. Il XX secolo sta per finire, cosa vuoi che siano 3 anni? Si parla di una nuova moneta Europea intanto il trattato di libera circolazione dei cittadini sarà reso operativo dal 26 ottobre, una nuova era d’oro per il continente, così i giornali economici e le dichiarazioni commosse condite da traboccanti strette di mano per l’onore dei fotografi ci viene prospettata. Ma le prospettive son solo e sempre ipotesi, dovremmo avere prove inconfutabili per renderle plausibili, basta un attimo e come il barman al quale hai chiesto un Negroni nel girone infernale all’una e trenta circa, ti serve uno sbagliato. Negroni sempre di nome ma non di fatto; il mondo regolato dall’orologio dell’universo va avanti come sempre con o senza speranze.

Di quelle ne avevamo in abbondanza, la politica dopo anni di difficoltà legati mani e piedi al sistema clientelare della prima repubblica sembrava andare verso un nuovo corso. Il 20 Gennaio Bill Clinton iniziò il suo secondo mandato aspettando la stagista a carponi nello studio ovale, la cometa Hale-Bopp il 22 Marzo sfiorò la terra e come una mano anonima scrisse “In vita mia hovvisto piùu homete che fiia” sul muro dell’accademia navale di Livorno, portò gioia tra gli umani, altro che sfighe. Infatti il 9 Maggio a Venezia un gruppo di annoiati nostalgici della Serenissima occuparono il campanile di San Marco, una gogliardata che la cometa sicuramente aveva suggerito. Dopo un secolo, in un 1° Luglio afoso, condito da tifoni nel sud est asiatico colpito da una crisi economica senza precedenti, la Gran Bretagna restituisce Hong Kong alla Cina che ci stava mettendo il naso nell’economia globale, “Che cosa vuoi che facciano ‘sti cinesi? Sono lavoratori a buon prezzo, null’altro. Il vantaggio che lavorano, lavorano per una ciotola di riso. Ho spostato la produzione vicino a Canton, li fanno quello che voglio io, non i miei dipendenti…” Cosi tuonava a cena un amico di mio padre, dimenticandosi che loro, i mangia riso, erano un impero dal 221 a.C. con solo duecento anni di declino e che avevano sostituito all’Imperatore il partito, ma i risultati li avremmo visti dieci anni dopo. Ma era tempo di lacrime popolari, di accorati mazzi di fiori lasciati sul luogo dell’incidente: il 31 agosto Lady Diana Spencer sotto il Pont de l’Alma perde la vita in un incidente stradale. I suoi funerali commuoveranno 2 miliardi di persone appiccicati agli schermi dei televisori di mezzo mondo, tra dediche, canzoni di Elton John ed ipocrisia celebrativa, the show must go on. L’autunno stava per iniziare, due studenti dell’università di Stanford Larry Page e Sergey Brin il 15 Settembre annunciano la teoria secondo cui un motore di ricerca basato sullo sfruttamento delle relazioni esistenti tra siti web, avrebbe prodotto risultati migliori rispetto alle tecniche usate fino ad allora: nasce Google. Questo episodio segnerà il corso degli anni successivi, la vita sociale degli esseri umani muterà radicalmente, internet dilagherà nelle case mandando in pensione le polverose enciclopedie che stanno staticamente in bella vista nei salotti ad imperitura memoria di cultura da acquisire.

Il 13 Ottobre non è un giorno qualunque per la nostra storia. L’uscita nelle librerie Londinesi di “Harry Potter e la pietra filosofale” libro di J.K. Rowling, il primo di una serie di sette non prende le prime pagine dei giornali. In Italia si discute su un’ordinanza pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale che fa ordine sugli interventi urgenti legati al terremoto che aveva colpito, tanto per cambiare, Marche ed Umbria il 26 settembre ma sono notizie che sarebbero scivolate come il sapone sulle mani.
Chissà che cosa passava per la mente di Gianni Biffi quel pomeriggio in Via Messina. Sicuramente era impegnato alla ricerca di un parcheggio come tutti quelli che in un giorno qualunque, uggioso come tutti i giorni dell’ Ottobre 1997, colorato dalle foglie rosso screziato e giallo senape cadute dagli aceri nel piazzale del Monumentale trasportate lì chissà come da un vento nervoso ed indisponente e dagli ombrelli aperti dei passanti che si riparavano da un inutile pioggerellina lungo le bancarelle del mercato di via Fauchè.
Come sempre trovare parcheggio in zona era più difficile che vincere un terno al lotto sulla ruota di Venezia, ma in via Procaccini in fronte a Rossignoli evitando le rotaie del tram appiccicati al marciapiede della ex fabbrica Carminati, Toselli & C. che tutti conoscono come la Fabbrica del Vapore, se ci mettevi il giusto impegno, una Subaru Impreza WRX STI la piazzavi, stando attento a non sfrisare i cerchi dorati in stile “Goldfinger” che la caratterizzavano. Il design non l’ ho mai compreso fino in fondo, ma per quanto i cerchioni potessero far vomitare anche i koala, io l’ Impreza me la ricordo più per la guida che per l’estetica, proprio come il Gianni, che in quel momento era alla guida della stessa.

Via Messina, in quel tempo era il baluardo alla penetrazione della comunità Cinese, che stava concentrata nel Borgo degli Ortolani noto ai più come Chinatown, il quartiere compreso tra via Canonica e Paolo Sarpi. Nel brulicare di attività commerciali ed artigiane Cinesi resistevano all’espansione alcune attività commerciali, in via Niccolini, per fare un esempio, si era piazzata la Numero Uno, concessionaria bauscia delle Harley Davidson e meta di pellegrinaggio di Yuppies non ancora tatuati e di ligere del Giambellino nostalgiche di Easy Rider. Tra queste attività commerciali una piccola bottega che era il negozio di MTB a Milano: Tech Shop. Il mercato dell’esoterismo su due ruote era diviso equamente tra Tech Shop di Alan K. e Bicimania a Lissone, piazzato lungo la Valassina e gestita da Maurizio Z. grazie alla passione di un industriale Brianzolo. Alan era mosso dalla passione di chi sa che, come scriveva Oscar Wilde “The difference between a man and a boy is the price of the toy” (in italiano la rima non torna ma il senso sì…“la differenza tra un uomo ed un bambino è il prezzo del giocattolo”), tutti noi abbiamo bisogno di giocare fino al giorno della nostra departita. Se smettessimo faremmo uno sgarbo ai nostri sogni: l’umano vive di quelli ed i giocattoli aiutano, Gianni ne è un fulgido esempio. Il negozio era meta di personaggi che giocavano con molta passione, tipo un noto ingegnere Milanese che pur avendo una mole poco consona al prodotto acquistava in modo compulsivo tutte le biciclette che potevano in quel mentre renderlo meno soffocato dal lavoro, per poi ripudiarle gettandole delle rupi. Ignari testimoni lo videro gettare una Yeti ARC, al grido “Bici di MMMM…..AAAAA!!!!! “, da un’asperità. Tutti noi abbiamo una rupe Tarpea con la quale prima o poi facciamo i conti in senso figurato; Lui invece da buon ingegnere le cose le faceva, nel bene e nel male.

La vetrina di Tech Shop era una fucina di sogni all’ennesima potenza: Mantis, Yeti, Mountain Cycle, Santa Cruz, Turner, Cannondale, componenti che non avrebbero sfigurato in vetrina da Pisa in piazza Duomo, non solo per la raffinatezza ma anche per i prezzi. Tutto proveniva dagli Stati Uniti rigorosamente ricavati dal pieno, la massificazione del prodotto era ancora da venire, eravamo nel guado tra l’artigiano geniale e la timida industrializzazione: era la nicchia della chiesa esoterica del Biker Milanese. La pioggia leggera sfocava la vista della Mantis Flying V che si ergeva a totem circondata da componenti adoranti al centro della vetrina, i passanti volgevano lo sguardo incuriositi e scuotevano la testa sparendo nel grigio del pomeriggio sollevando gli ombrelli per far passare le donne con le borse della spesa. Dopo aver vinto il terno del parcheggio, Gianni si avvicinava all’ingresso di Tech Shop con il suo incedere curioso; un incidente automobilistico di ventuno anni prima lo aveva relegato ad una lunga degenza in quel di Chiusi, ingessato fino al torace per troppi mesi con il risultato di avere in ricordo una piaga alla caviglia che lo costringeva ad un leggero inchino della spalla sul lato destro ogni volta che muoveva un passo in avanti, riequilibrando la camminata.
All’ingresso F.F. un uomo sui trentacinque / quarant’anni di media statura, capelli castani che sovrastano disordinati una fronte spaziosa con il viso delimitato da un paio di occhiali dalla montatura pesante che gli davano l’aspetto di un prete di campagna in attesa di entrare in curia per incontrare un superiore e, come in quei momenti, inarcò le spalle e si guardò intorno incrociando cosi lo sguardo di Gianni.

“Oh, Gianni come stai, stai andando da Alan? Stavo per entrare in questo momento. Beh, voglio che mi acquisti qualche San Andreas, ho dei componenti niente male di Adventure Components, sospensioni Risse. Non so se lo sai, ma questa non è la mia sola rappresentanza commerciale, ci sto provando. Il mercato è in crescita… Io sono solo, tu sei un imprenditore, hai magazzino, contabilità, dipendenti ai quali un domani delegare… Insomma avrei, no… Vorrei chiederti se questa attività ti potrebbe interessare, Tu sai gestire, ma soprattutto sei un appassionato! Quanto spendi qui da Alan? Non che io voglia farti i conti in tasca ma… Pensaci. Per te sarebbe un piccolo impegno… La struttura non ti manca. cosa ne dici? Non che sia di fretta, ma quando vuoi ne riparleremo; vieni a casa da me e ti mostro il mio magazzino, così mi potresti dare un suggerimento… Senza impegno, la mia è un’idea che mi è venuta in mente ora… Vedendoti”
Gianni non distolse lo sguardo durante tutta la conversazione. La proposta lo allettava, un nuovo gioco da iniziare. Buttò lo sguardo sulla Mantis circondata da un aurea di goccioline di pioggia. Abbozzò un sorriso. ”Va bene F. oggi qui su questo marciapiede di fronte a questa vetrina nasce Pro-M, l’idea mi piace, vedremo se il tempo sarà galantuomo e dove arriverà.”
Non entrò da Tech shop, salutò F.F. e si diresse in direzione di via Procaccini scivolando tra gli ultimi ombrelli aperti.

Pro-Meide – Libro I – L’ incontro

01 Mag 2020

Libro I – Cap. II

L’incontro
Un sabato imprecisato di Luglio 1998

Luglio a Milano era un sudario calato sulle strade, trincee di asfalto che metteva a sedere i Milanesi boccheggianti nei parchi tra dog sitters, tate filippine ed improvvisati suonatori di Bonghi dispersi con la mente su qualche remota spiaggia della Giamaica. Le scuole erano finite a Giugno, quindi meno traffico ma il calore umido non faceva alcuno sconto: la sensazione che ti dava la sella a 451° Fahrenheit era l’esistenza dei centauri, dato che ti si incollava al fondo schiena e ti faceva un tutt’uno con lei. Non ho mai passato un Sabato in città da quando iniziai a vivere a Milano, non uno che fosse inverno, primavera, estate o autunno: ero più latitante di un bandito sardo nell’Ogliastra. Chi latita per necessità si sposta alla ricerca di nuovi rifugi, io ero sempre alla scoperta di nuovi sentieri, appena ne avevo la possibilità. Ripercorrevo quello che durante la mia infanzia avevo apprezzato in compagnia di mio padre e li ripetevo con varianti che poi negli anni successivi verranno chiamate “varianti Freak” con un nervoso affetto dai miei compagni di pedalate. Immagino i volti dei miei amichetti quando leggeranno queste parole…

Comunque sia, quel Sabato ero rimasto a Milano perché avevo la necessità di recuperare l’ammortizzatore Risse Terminator per la mia B5; senza non sarei andato da nessuna parte, avevo in mente un giro al colle di Valcava, per riscoprire il sentiero 801 che porta a Torre Dè Busi. Mi ero messo a cercare Via Lucillo Gaio su Tuttocittà, non ero molto pratico della zona a quel tempo, unico indizio “zona viale Certosa”… L’unica cosa che conoscevo era la concessionaria auto Bepi Koeliker che imperava scintillante, come le sue auto di lusso e che avrebbe fatto una miserrima fine pochi anni dopo, l’edificio severo in un qualunque anonimo stile teutonico della filiale Bayer Italia, giusto perché quando prendevo la fuga da Milano me lo trovavo all’angolo aspettando il semaforo verde. Per chi non ha vissuto il periodo pre-navigatore Tuttocittà era un fascicolo che veniva recapitato con l’elenco telefonico e di corredo alle Pagine Gialle: quando cercavi un attività commerciale ti affidavi ciecamente a lui, cercavi nell’indice la via poi andavi a sfogliare fin che non trovavi il quadrante di riferimento. Fase due: segnavi l’itinerario a mo’ di roadbook sulla Moleskine e poi andavi fiero come un esploratore nell’Africa nera per la tua strada, confidando sulla bontà della tua scelta. Il primo pomeriggio stava per arrivare, anche perché non ho mai capito quando accidenti inizia: alle 14? Oppure alle 15:30 come la maggior parte delle attività commerciali della operosa Milano? Vampate di calore mi venivano gettate in viso come i coriandoli al carnevale mentre guidavo la moto lungo la circonvallazione, i rivoli di sudore iniziavano a scendere dalla fronte come fiumi in piena dopo essermi lessato prelevando il contante ad uno sportello Bancomat.

Ma ero in ritardo o almeno credevo di esserlo. Persi un sacco di tempo per capire da dove si prendesse Via Lucillo Gaio: lo stradario me la indicava quale fosse una parallela di Viale Certosa, ma non vi era modo di accedere, percorsi su e giù per un paio di volte il viale, fin tanto che orientando lo stradario che per sicurezza avevo riposto nel baule della moto trovai l’ingresso: preso il controviale mi infilai in via Tibullo, incrociai a destra il divieto di accesso a via Lucillo Gaio girai in Via Gallarate, che ai tempi non mi diceva nulla sennonché fosse la via che conduceva ad uno dei cimiteri più grandi di Milano, al semaforo prima del cavalcavia del Ghisallo imboccai via Capodistria e con magno gaudio mi ritrovai in Lucillo Gaio. La via era sonnecchiosamente deserta alle 15:20 circa di un Sabato di Luglio, parcheggiai sul marciapiede augurandomi che l’asfalto non si liquefacesse, buttai il casco nel baule e mi avvicinai al numero 7…

L’edificio dal design classico degli anni settanta ad un piano era equamente diviso in due parti uguali con cinque bocche di lupo messe in sicurezza da robuste inferriate dove sulla prima a sinistra campeggiava una targa con tanto di freccia che guardava in basso a destra con scritto “POSTA” ed altrettante finestre , chiuse in quel momento da serrande grigio austero addolcite da frontespizi rosso carminio accompagnate in un ordine BauHaus da piastrelle dal profilo romboidale grigio chiaro che mi ricordavano il cielo di Milano… Che fosse un omaggio dell’architetto a questa città? Al centro un ingresso con un accesso di alcuni gradini in marmo agli uffici a sinistra, dove una lampada di lucido ottone aggrappata ad una parete di legno color mogano illuminava di sottecchi una porta chiusa da una doppia mandata e da un portone marrone finestrato che non tradiva il suo scopo di ricevimento merci con una porta al centro che come un buttafuori al Plastic attendeva il mio ingresso. Sopra la targa del passo carraio il numero 7 mi confermava la destinazione e sopra un globo blu composto dalla scritta BIFFI al centro e sul fondo bianco AUTO PARTS mi rammentava che non avevo sbagliato indirizzo… Ma la Pro-M? Avvicinandomi al portone vidi il logo ripetuto ed appena sopra una targa adesiva che imparai a conoscere bene nel corso degli anni : Pro-M !

Suonai il campanello e sentii la voce ovattata di un uomo che diceva “Vado io! Vedo chi è…” Sentii una chiave aprire la mandata, la porta si aprì e due occhi cerchiati da un paio di occhiali inforcati su un naso generoso mi scrutavano questuanti: misi a fuoco un viso rubizzo, dovuto al caldo che fuoriusciva dall’interno, con una fronte spaziosa imperlata da piccole gocce di sudore che si allungava verso la nuca non nascondendo un’ incipiente calvizie.
Sfoderai un sorriso e tendendo la mano dissi “ Gianni Biffi? Piacere ho chiamato ieri per acquistare un ammortizzatore Risse, mi sa che sono in ritardo , ma ho fatto un poco di casino qui intorno per arrivare…” L’uomo mi fece entrare richiuse la porta si voltò verso di me e mi rispose: “no… non sono io Gianni, sono un amico di vecchia data, andiamo in bicicletta insieme… Adesso è su in ufficio, aspetta che lo chiamo così scende, immagino conoscendolo che Ti stesse aspettando… Ci diamo del Tu tra Bikers, piacere mi chiamo Daniele”. Mi guardai intorno, la luce che filtrava dai finestroni del portone metteva in chiaro scuro gli scaffali in fila come tanti soldati all’alzabandiera fino a farli dissolvere nel buio, una Subaru Impreza WRC STI nei canonici colori racing con un impressionante tubo di scarico stava in fronte. Appoggiata ad una colonna una Pro Flex 856 rossa di taglia media era accostata ad una colonna. “Non c’è alcun problema, va benissimo, sono Ezio” risposi. Il rumore di un condizionatore era amplificato dallo spazio ampio del magazzino, sicuramente alleggeriva la morsa del caldo in ufficio, ma io sudato lo ero. Se c’è una cosa che odio è non essere presentabile ed in quel caso incarnavo questa opzione… “Ggiannniii, vieni giù!” Daniele si era avvicinato ad una scala alla mia destra che portava ad un ballatoio dove alle spalle si aprivano gli uffici, da una porta a vetri uscì un uomo che appoggiandosi alla balaustra con quell’accento profondamente Milanese e velatamente nasale rispose “Arrivo, scendo subito…” La prima cosa che notai, fu in suo incedere: un passo cadenzato, senza nessuna fretta con il capo leggermente chino a destra. Quando fummo l’uno di fronte all’altro allungando la mano disse: “Gianni Biffi”

“Mi deve scusare, sono in ritardo pensavo di arrivare un poco prima, ma via Lucillo Gaio ha un ingresso non facile, questa è una zona che non conosco… ma ci sono!” Gli strinsi la mano. Indossava una Lacoste ed un paio di jeans al polso un orologio sportivo, un uomo di statura media con una capigliatura corvina foltissima che nascondeva in parte la fronte, mettendo in risalto gli occhi attenti che abbracciavano un naso affilato accompagnando il mento che metteva in ordine il viso, non aveva il fisico di un sciusciamanuber ritenevo avesse una quarantina di anni o poco più. Nella mano sinistra dove spiccava una sottile fede d’oro giallo, teneva stretto un Nokia 9000 Communicator, un gioiello tecnologico… Costava quanto un appartamento in Montenapo si usava dire in quegli anni. “Andiamo il magazzino Pro-M è lì sotto”
“La Pro Flex è vostra?” Gianni si girò e con un mezzo sorriso di scherno rivolto a Daniele che mi stava al fianco disse divertito “No… Qui di cancelli non ne teniamo, abbiamo già quello all’ingresso, basta ed avanza” Daniele non rispose subito, scosse la testa e rise di gusto. Mi pareva fosse molto complice; gli sfottò ci stanno se sei in sintonia, pensai che si conoscessero da tempo. Appena entrati a destra sotto il ballatoio, un piano antiscivolo portava all’ammezzato dove ci attendeva la stanza dei giocattoli. Lo spazio non era grande, in una scaffalatura alla sinistra entrando vi erano disposti attacchi manubrio AC, ricambi, selle , dischi freno ed impianti Pro Stop, ammortizzatori Risse e molle Eibach… Quello che mi colpì era l’ordine con il quale la gamma Mountain Cycle era stata allineata di fronte. Le biciclette stavano come cavalli in parata a distanza preordinata, con la pedivella destra in avanti a centottanta, come se attendessero il segnale per scattare… Le San Andreas declinate in un bianco fatale facevano la parte dei Lipizzani all’ alta scuola di Vienna, la loro grazia stilistica le rendeva uniche! Sembrava fossero lì solo per gli occhi del loro mentore, che le aveva assemblate con dovizia di dettagli… Una cosa mi fu subito chiara: quell’uomo in Lacoste quando mi spiegò su mia richiesta le caratteristiche delle biciclette soffermandosi su ogni più remota minuzia che fosse una saldatura o sui componenti che montava non era un commerciante ma un visionario, era la vittima perfetta di una passione che se lo catturava si faceva spolpare da Lei, un supplizio di Tantalo che ti porta ad andare sempre più alla ricerca di nuovi orizzonti. Pensai che quello era il suo hobby ed avendo forse intuito che aveva altro come attività lavorativa, dava sfogo al suo desiderio di giocare.

“Sei fortunato, in Italia quante AMP RESEARCH ci sono? Mi sa poche, le conti sulle dita di una mano” così proferì consegnandomi il mio ammortizzatore. “In effetti comuni non sono, mi trovo bene quando la pedalo non vedo l’ora di provarlo, sono molto contento, grazie. Domani sicuramente uscirò in bici, voi uscite?” Risalimmo in magazzino, Daniele si avvicinò alla Pro Flex giochicchiando con la forcella Girvin “Gianni domani non abbiamo in programma di andare a Tirano per andare a fare Bernina, Pontresina, Alpe Grum, Poschiavo?” disse mentre stavo per saldare l’acquisto.
“lo conosco benissimo il giro in questione, lo faccio da anni, questo è il momento migliore per andare, i laghi sono incredibili a Luglio.”
Dandomi la fattura, Gianni Biffi mi disse: “se la conosci così bene vuoi venire con noi? Siamo un gruppo di amici e Clienti. C’è anche Daniele con il suo cancello, ci troveremo qui domattina”
“Grazie, ci verrò sicuramente… Sono onorato di questo invito… Facciamo così, vediamoci domattina a Lecco in piazza Cermenati sul lungo lago. ditemi voi a che ora… 7,30 può andar bene? Un posto lo avete per me? Questa sera andrò a trovare i miei genitori, appena finirò di montare l’ammortizzatore…”

Pro-Meide – Libro I – Anabasi e catabasi

30 Apr 2020

Libro I – Cap. III

Anabasi e catabasi

La piazza Cermenati in questa domenica al mattino presto, era punteggiata da anziani che andavano con passo tremolante ad affrontare la doppia scalinata in pietra grigia che conduce al sagrato della basilica di San Nicolò per la messa delle sette. L’assenza del Tivano mi confermava che avrebbe fatto molto caldo, le spiaggette ghiaiose del lago si sarebbero ben presto riempite di bagnanti accaldati e le auto cariche di Milanesi desiderosi di trovare frescura in Valsassina si sarebbero incolonnate sui tornanti da Malavedo a Ballabio, risvegliando con qualche colpo di clacson qua e là i residenti. Tutto nella norma, una classica immancabile domenica di Luglio tra lago e montagne tutti in fuga dalla bassa… Io stesso ero la regola non l’eccezione.
Dopo aver combinato un mezzo disastro nel montare l’ammortizzatore, avevo perso le viti facendole cadere nel tombino al centro del cortile di casa solo perché mi alzai dando retta al signor Ghezzi, che da buon pensionato pur di non star rinchiuso in casa stressato dalla moglie , appena mi vedeva armeggiare sulla bicicletta compariva come fosse una poiana affamata in picchiata su un pollaio. Era stato per quarant’anni alle Officine F.lli Borletti in via Washington, 70 a tornire minuteria e immancabilmente in un Milanese melodioso mi diceva “Uèe, l’è no ‘na bicicléta chesta chì… varda che robb… varda lì…varda lì, tuta de alùminio… ma quant la pésa, pòoch me sa propri… pòoch” ; mi son dato del pirla per un buon dieci minuti, ma per mia fortuna le viti le aveva lui. Vicino a casa avevamo la casa della vite e per sfizio di collezione ogni settimana ne acquistava qualche serie di passi e misure diverse, a che scopo non l’ho mai saputo… C’è chi colleziona francobolli e chi viti, non entro nel merito della passione, un terreno minato. Senza il suo intervento riparatore il giorno dopo non sarei stato lì ad aspettare Gianni Biffi ed i suoi argonauti.

In quel periodo non possedevo un autovettura, non che non ne avessi avute, ma dopo aver preso tra il  Giovedì notte e il Venerdì mattina due multe in divieto sosta per lavaggio strade decisi che il comune di Milano poteva vivere senza affibbiarmi multe. Mi muovevo estate ed inverno, pioggia, sole e neve in moto, se ne avevo necessità noleggiavo un auto: ma quel Sabato optai per un trasporto rapido, caricai la bici sul GS. La peculiarità di quest’ultima era, oltre al sistema di sospensione anteriore, l’ottimizzazione del trasporto bagagli: borse laterali, baule e la sella divisa in due parti che nascondeva sotto quella del passeggero un telaietto metallico che allungava il portapacchi. Tolte le ruote ed il reggisella legare la B5 con due corde elastiche era un gioco da bimbo dell’asilo, nelle borse casco e protezioni. Ero in piedi in fianco alla moto quando alle 7,30 preciso come un treno svizzero un furgone bianco seguito da alcune auto si fermò azionando le quattro frecce appena prima della piazza. “Biffi, questo è fuori, ma fuori vero…” disse ridacchiando Daniele scendendo dal furgone. Era un Ducato bianco, un duemila benzina: “Gianni come mai un furgone a benzina? Consuma come una nave porta container…” esclamai. “Non sopporto l’odore del gasolio, per niente” La risposta lapidaria non ammetteva replica. Nel frattempo scesero dalle auto accodate una decina di bikers dalle divise multicolori , in quel periodo il fluo imperava la stesso Gianni aveva un giacchino antivento logato Mountain Cycle in pieno petto, con una scelta di colori forse suggerita al grafico Californiano da un uso smodato di sostanze psicotrope… Non so chi fosse meno fuori tra tutti, poiché visto da vicino nessuno è normale (Franco Basaglia cit.).

Sul furgone il terzo sedile era occupato da un altro biker con una maglia attillata che rivelava il suo passato da stradista, un Milanesone dinoccolato e dalla lingua tagliente ma sempre in modo educato: Daniele Marnati. Il braccio meccanico di Pro-M, lo scoprii quel giorno, qualche ora dopo, prima di iniziare la discesa verso Poschiavo. Rimontai le ruote ed il reggisella alla velocità di Speedy Gonzales e trovai posto sull’auto di Gigi C. uno dei Clienti amici del Biffi che iniziò ad apprezzare la mia logorrea che gli tenne compagnia fino alla destinazione: Tirano. Il Bernina Express, treno a scartamento ridotto della ferrovia Retica con i suoi vagoni rosso fiammante, ci attendeva per portarci con lentezza al Passo del Bernina 2.328m sul livello del mare: considerato che Tirano sta a 441m avremmo avuto più di 2000m di dislivello in discesa, dato che saremmo scesi fino al Morteratsch dove avremmo raggiunto il ghiacciaio e, prima di riprendere il trenino e ritornare al Bernina se il meteo ci avesse assistito, avremmo ammirato la cima del Pizzo Bernina e la cresta vertiginosa del Biancograt che mette ansia solo a nominarla invano. Ma Svizzeri sono ed i treni caro lei, partono sempre in orario, quindi trovato parcheggio nei dintorni della stazione andammo trafelati alla banchina dove in ordine allineammo le bici pronte ad essere caricate sul vagone dedicato, appoggiate al corrimano sembravano tante fuoriserie pronte alla partenza in puro stile Le Mans. Sembrava un trofeo monomarca Mountain Cycle escludendo la mia AMP B5, una Pro Flex 856 di cui ho gà parlato ed una bici in tubi di acciaio con una forcella ammortizzata marchiata Marnati.

La salita con il percorso era un apoteosi di bellezza architettonica e paesaggistica: dopo pochi chilometri passata la frontiera elvetica un viadotto elicoidale ci sorprese , permettendoci di fotografare a 360 gradi la valle consentendo al trenino di inerpicarsi con pendenze al 70% per arrivare a Miralago costeggiando il lago di Poschiavo dove l’azzurro turchese delle acque si scioglieva nel verde profondo dei boschi circostanti e dove la valle si apre con maestosità sotto lo sguardo severo del Bernina. Non si faceva un granché di chiacchiere, per molti del gruppo era la prima volta, si osservavano le rive boscose ed i ghiacciai pensili tra gli “ooohhh” di stupore di comitive di turisti Giapponesi con calze ed infradito ai piedi tutti presi dallo smanacciare le loro Nikon F4, tanto che fotografarono anche noi quando scendemmo al passo… Chissà che cosa mai pensassero di noi, credo che l’abbigliamento arlecchinesco abbia avuto il suo fascino. Lasciata l’alpe Grum la vista del Lago Bianco ci permise di vedere il sentiero che avremmo percorso per tornare a Tirano, scorreva in parte in fianco alla linea ferroviaria per poi sparire alla vista poco prima di una diga idroelettrica. Scendemmo carichi come molle dal treno sferzati da un vento pungente che al Passo del Bernina non ti abbandona mai nel bene e soprattutto nel male, quindi anche l’antivento psichedelica aveva un senso perché ti evitava il record di corsa al bagno dove se non avevi il franco pronto eri castigato…

Salire a freddo per guadagnare una cinquantina di metri di dislivello era decisamente fastidioso, le nubi si sovrapponevano rapide al sole che cercava di riscaldare una landa senz’alberi ed il vento ovviamente faceva il suo lavoro soffiandoci beffardo contro. La difficoltà della percorrenza dei sentieri era assai diversa da quella di oggi date le minori escursioni e le gomme che non avevano le mescole ultragrappanti che utilizziamo in questi ultimi anni; non si abbassava la sella in discesa per cui vederci scendere non era come vedere Barishnikov sul palcoscenico dell’Operà di Parigi… Posso dire che con le geometrie del tempo facevamo cose inimmaginabili, tipo cappottoni degni del miglior “Fantocci” (Sig.na Silvani cit.) oppure la dimostrazione pratica del Big Bang. Avendo esplorato ormai da dieci anni l’Engadina, condussi il gruppo lungo un sentiero escursionistico che sfiorava il Piz Lagalb, un dente scosceso che fa da spartiacque con la valle di Livigno: non esistevano precisi sentieri per mountain bikers, si percorrevano le carrarecce dove i cavalli trainavano annoiati le carrozze pullulanti di vacanzieri con i pantaloni di velluto a coste larghe oppure i tracciati del CAS. Il sentiero lo conoscevo bene, sapevo quali difficoltà avremmo trovato, vedendo il gruppo cosi omogeneamente fluo pensai che lo fossero anche in discesa. Daniele il braccio meccanico di Pro-M si fece gran parte del sentiero con la bici a mano e non me lo mandò a dire quando fummo alla stazione del Morteratsch: in realtà non era cosi difficile, ma per chi come lui proveniva dalla strada, la sua idea di fuoristrada era più simile al ciclocross… Gianni aveva in quel momento una San Andreas nera e dietro di lui sfilavano tutte le altre che sembravano mustang al galoppo, quasi a fagocitare i massi di granito che interrompevano il fluire del sentiero, che poco dopo si sarebbe dolcemente trasformato in un serpente di terra gialla fino alla strada bianca che ci avrebbe portato verso il ghiacciaio. Un caldo sole ci aveva accolto, ma nuvolaglie minacciose che facevano cappello alla cima ci consigliarono di prendere il primo treno in direzione del Passo.

Finalmente il tepore della carrozza che era come da regolamento per tre quarti occupata da una comitiva di giapponesi questa volta con gli scarponi da montagna e con le macchine motorizzate pronte a sparare trentasei foto in un battito di ciglia. Il gruppo sembrava soddisfatto del percorso non avevo familiarità con nessuno di loro, ma una sana empatia si era già sviluppata. Non ero ancora nel meccanismo della presa per i fondelli, attività che con diverse modalità segnerà le uscite future… Per fortuna non ci siamo mai presi sul serio, altrimenti non sarei qui a scriverne.
Il tragitto nonostante la splendida lentezza del trenino fu breve, scendemmo all’ Ospizio del passo e costeggiando il Lago Bianco pedalando alcuni tratti in saliscendi piombammo all’alpe Grum da dove si spalancò sotto le nostre ruote la scoscesa Val Cavaglia. Il Lago Palù alla vista sembrava un turchese grezzo adagiato su un cuscino di color smeraldo legato da un fiocco grigio. Il sentiero scendeva a capofitto fino a lambirlo, tra sassi smossi e taglia acqua assassini: eccome se lo erano.
Le vittime non si fecero attendere ed io come dimostrerò anche in futuro ero la vittima sacrificale predestinata. “Certo che… Se mi scendi così più prima che poi una foratura ti aspetta” Gianni con un sorrisino un poco strafottente ma ci stava, ero nuovo dell’equipaggio, il comandante era lui anche se non mi sembrava fosse il capitano Achab e io non ero Ishmael, per carità aveva ragione… “La modalità Caterpillar può dare dei buoni frutti, ma a Poschiavo non arriverai se non hai qualche camera nello zaino”. In effetti Gianni aveva ragione. Ho sempre guidato con pressioni imbarazzanti, ma visto che non sono un peso piuma avrei dovuto preferire due ruote di legno. Per completare il quadro avevo problemi con il cambio, Daniele il braccio meccanico di Pro-M forse impietosito dal mio armeggiare sul cavo si avvicinò. “Regola n.1: se té sbùset té se incùlet… Regola n.2: le regolazioni si fanno in officina prima di uscire… Regola n.3: incoò l’è Dumenega e lauri no”. Queste regola auree mi seguono ancora adesso anche se dopo ventidue anni qualcosa è cambiato…

Ed allora giù sempre a testa bassa visto che il reggisella stava in cielo, attraversando la linea ferroviaria conducendo le danze, seguivamo i calanchi che il torrente Cavagliasch impetuoso aveva forgiato, accecato dalla voglia di gettarsi nel lago e noi chi più chi meno non eravamo inferiori per impeto: il sentiero sembrava infinito e la stanchezza iniziava a farsi sentire. La postura in sella, le sospensioni che offrivano al massimo 120 mm nel mio caso per le San Andreas 112,5 mm non erano sicuramente degli overcraft, ma i sorrisi non mancavano, le ruote si sollevavano ritmiche da terra sbuffando nuvole di polvere come tori all’ingresso dell’arena.
Rapidamente il sentiero si trasformò in un tratturo e poi in una strada bianca e senza renderci conto ci trovammo sull’asfalto a Poschiavo ed una ciclabile ci avrebbe portato a Capolago. La statale ci avrebbe riportato alle auto parcheggiate, avevamo il tempo di sfilarci la testa del gruppo l’un l’altro con scatti repentini oppure infilandoci negli spazi lasciati aperti a centro curva ma le fughe venivano sempre ricucite da Gianni che aveva le ruote più scorrevoli : questo sarà il leit motiv che accompagnerà le gite nel futuro, ma in quel mentre non potevo saperlo…
Mi addormentai a Sondrio e mi svegliai sul lungo lago di Lecco che pullulava di gente a spasso nel tardo pomeriggio con bimbi vocianti, cani al guinzaglio e decine di moto allineate in bella mostra davanti alle gelaterie. “Grazie a tutti, è stata una gita niente male” dissi mentre legavo la bicicletta sulla moto. “Grazie a te, ottimo giro, sentiamoci prossimamente, magari qualche altra volta usciremo”. Salutai tutti con un cenno della mano e mentre i due Daniele e Gianni stavano per salire in furgone dissi: “chissà mai che non si esca qualche altra volta se ci sarà modo”. Inforcai la moto e sgattaiolai tra le auto in coda direzione Milano.

Pro-Meide – Libro I – ¡ hoy madre !

29 Apr 2020

Libro I – Cap. IV

¡ hoy madre !

Andovvai se un claim ‘uncellai?

Milano a fine secolo respirava ancora gli anni della Milano da bere, quella della pubblicità dell’amaro Ramazotti tanto per intenderci. Viveva di quell’aurea che i locali dove i piatti in bella mostra ti schiaffavano sotto gli occhi tartine, patatine e reduci degli anni d’oro di Tangentopoli che con le loro Harley d’ordinanza scodellavano le ultime modelline Americane rimaste, prima dell’invasione Russa che avrebbe stroncato il mito delle super muse degli stilisti, strapagate per fare il muso imbronciato sulle passerelle della settimana della moda. In quel girone dantesco ricamato con effimera bellezza, si muoveva con un gran dinamismo da parecchi anni un amico di lunga data di Gianni: Gianfranco S. aka “The Vice” (di questo e di altri nickname avremo modo di spiegare nel corso degli eventi). Nonostante fossero quasi agli opposti per stile di vita ed abitudini lavorative coltivavano un amicizia solida che con l’apertura di Pro-M si cementò ulteriormente, visto che queste biciclette Americane avevano un fascino esclusivo, come il mito di quei catorci da 300 chili tutti cromati e scintillanti che il più grande comunicatore delle due ruote aveva creato in via Niccolini, erano degne protagoniste di un set fotografico.

Gianni era abituato da sempre ad alzarsi presto per andare in azienda, incarnava la dinamicità dell’ imprenditore Milanese tutto casa, lavoro e passioni: non era un ciclista, non veniva dalla strada. Lui aveva la passione per le due ruote, soprattutto per quelle fuoristrada che coltivava da quando suo padre gli regalò un Guazzoni 50 Mattacross che il Sciur Aldo un visionario, tale e quale i padri della mountain bike, costruiva una ad una le sue creature soddisfacendo i desideri dei Clienti in un atelier di raffinatissima artigianalità in Porta Romana: credo che questo si sia nascosto nel subconscio di Gianni fintanto che non ebbe il suo primo telaio San Andreas di Mountain Cycle.
Robert Reisinger, un ingegnere meccanico Californiano dopo alcune esperienze come pilota di elicotteri ed un quinquennio come pilota e tester Kawasaki motocross aprì con 5,000 dollari la sua compagnia a San Luis Obispo in California nel 1988, per produrre telai da MTB. Aveva anche una forte passione per l’aeronautica: costruì il primo elicottero a propulsione umana che fu in grado di volare, insomma ci troviamo di fronte all’ennesimo genio che quel periodo ci donò. Credo che ogni studente o professionista che voglia disegnare un telaio, dovrebbe avere di fronte alla scrivania una fotografia di una San Andreas, pena la messa in mora di Inventor. La penna di Robert rivoluzionò i telai fino a quel momento nati da telai di derivazione stradale (“girela come tèe vòret ma in semper vòtt tubi”, Daniele Marnati manuale spirituale del telaista cit.) donandoci un design elegantemente semplice che applicò ad un monoscocca di ispirazione motociclistica o come del resto la sospensione posteriore. Talmente innovativo, uno stato dell’arte che la San Andreas non a caso è l’unica bicicletta che è stata esposta in un museo di arte moderna: il MoMa di San Francisco (not bao-bao, micio-micio… Gianni Biffi cit. primi anni duemila). Commercializzata nel 1991 fu la prima prima biammortizzata venduta di serie con freni a disco.

Mi ricordo ancora la prima di copertina della Bibbia che titolava entusiastica: “Have It Our Way… A bike so radical that it pushes the design limitations of not only bike frames but also suspension and brakes to new extremes”. Era Dicembre 1992, io avevo pompato fino a Maggio su una Gary Fisher RS-1 che mi sembrava un convivio di tecnologia, avevo montato una coppia di freni Grafton, prolunghe Control Tech in Titanio e una poderosa RockShox Mag 21 da 50 millimetri, gomme Tioga Farmer John da 1.8 e sul cockpit i comandi rotanti Gripshift di Sram… Cancellata dalla scossa di terremoto della San Andreas come fosse una costruzione abusiva sullo stretto di Sicilia. Non a caso credo il buon Reisinger aveva scelto il nome: San Andreas è la faglia Californiana luogo di devastanti terremoti, che si ripetono con intervalli regolari di circa 22 anni. E che scossa fu nel magmatico mondo della mountain bike: in seguito tutti i suoi prodotti furono caratterizzati da nomi legati alla sismologia ed ai suoi padri.

Quindi Pro-M aveva uno dei telai più desiderati, la San Andreas era pronta una volta che passata dalle mani di Daniele Marnati che gli faceva trucco e parrucco sotto le disposizioni a volte al limite dell’esoterico art director: non a caso l’accuratezza e la scelta dei componenti, fatta in modo che incarnassero i desideri del Cliente furono motivo di notizia sulle riviste del settore, sempre alla ricerca di novità: il Sciur Aldo Guazzoni su in cielo una lacrimuccia la lasciò scorrere.
Gianni era ed è un personaggio a suo modo particolare, mi ricorda Carlo Talamo deus ex machina di Numero Uno con il quale ebbe un lungo screzio, di quelli che suscitano amore o odio ma che non lasciano indifferenti come tutte le biciclette che ha assemblato.

“Biffi, Biffi, ascoltami bene: qui bisogna fare un poco di casino. Le pagine pubblicitarie delle riviste MTB fanno lo stesso effetto della dolce Euchessina ad un bambino di cinque anni. Sono di una tristezza, ma di una tristezza che mi verrebbe voglia di smettere di andare in bici”. Gianfranco come suo solito si era materializzato verso l’ora di pranzo, visto che in quel periodo non aveva importanti ed esclusivi parties all’Hollywood o aperitivi all’Hotel Diana. Giacca azzurro slavato, camicia bianca immacolata aperta sul petto che quando voleva essere assertivo gonfiava come un gorilla di montagna per sembrare più massiccio di quanto non fosse in realtà. Aveva una gran cura del corpo la palestra faceva il suo porco mestiere, braccialetti al polso e capelli non troppi ed ingellati quanto basta, occhiali con una montatura fine in tartaruga abbronzatura regolamentare con un sorriso sempre pronto. Telefoni due che sfoderava come un pistolero del selvaggio west, spesso squillavano e rispondendo all’unisono, fatto che gli impediva di completare un qualsiasi discorso che aveva iniziato… A Bologna avrebbero detto sborone, ma come non voler bene a The Vice. Gli amici un poco maligni, lo chiamavano il rappresentante della fig@a per il lavoro che svolgeva all’interno della più importante agenzia di modelle di Milano, ma era tutta invidia credetemi: vi vorrei vedere voi se non lo sareste, se un vostro amico che conoscete dall’adolescenza vi viene a trovare con Martina C. così facendo un nome a caso… Questo aspetto faceva un attimo, quel giusto innervosire il Biffi, che essendo anche e comunque impegnato in altre faccende lo stava per mettere alla porta con molto affetto. “Dai Gianni, andiamo a trovare Giovanni C. in studio ci devo passare per lavoro nel pomeriggio, ho una modellina Ceca che, credimi ne sono convinto, ha le potenzialità per diventare una top.” Gianni lo guardò sconsolato: “di bici capisci poco e un razzo, ma di fi@a non hai rivali” . Una fragorosa risata echeggiò nel magazzino “tu vendi bici ed io invece mi spiace per te, fi@a… ad ognuno il suo… Dai ci vediamo più tardi”.

Gianni controllò l’ora, si passo una mano nei capelli, prese la chiave dell’auto dalla tasca anteriore dei pantaloni avvicinandosi alla Subaru parcheggiata all’ingresso. “Oggi no, ho da fare, vedi se domani verso l’ora di pranzo Giovanni ha tempo, fammi sapere dai”. Gianfranco uscì sulla strada infilò un telefono tra testa e casco, accese il suo motorino e gridando in risposta ad una delle tante chiamate si allontanò alzando il pollice della mano sinistra, come se volesse impartire ordini ad un set fotografico inesistente.
Lo studio di Giovanni C. era in zona Navigli, in una corte di una casa di ringhiera, una di quelle che costeggiano l’ alzaia del Naviglio una volta popolate dagli operai ed artigiani Milanesi e dai “Napoli” che all’inizio del novecento avevano iniziato a salire su in folate interrotte solo dalle due guerre a trovare un lavoro ed un alloggio a basso costo. La Milano degli anni ottanta, quella dell’edonismo e dei locali si sostituì ai vecchi abitanti, trasformando la zona in una sorta di circo Barnum dell’apparire, quella che i giornali modaioli battezzeranno “la movida Milanese”. Tra un ristorante ed un pub che la maggior parte durante il giorno stavamo con le serrande a mezz’asta, si trovavano studi di artisti, creativi e fotografi. Milan l’è semper un gran Milan, a modo suo dava spazio a tutti. Giovanni C. non era sconosciuto a Gianni, si conoscevano da tempo legati dalla passione delle due ruote, aveva anni prima intrapreso la rinascita del marchio Harley con un un trio di amici ma la fotografia era la sua missione: i suoi ritratti sono pietre miliari pubblicate su riviste di tutto il mondo, dove riuscivi a leggere i protagonisti fin dentro il loro più recondito pensiero. Il suo libro fotografico Cilindri Bulloni & Facce raccoglie 50 ritratti di motociclette ed i loro proprietari, un excursus sociologico di passione ed introspezione.

Nella corte, c’era la sede dell’associazione Achiappocane e di fronte l’officina di un fabbro che faceva i lavori per loro: entrando l’odore del ferro era lo Chanel n.5 del palazzo ed i colpi di mazza scandivano a tempi irregolari la giornata. Dato che il nostro buon The Vice era in ritardo, come sempre adduceva impegni che lo tenevano al telefono per ore ed ore e l’ora di pranzo si avvicinava, Il Biffi si era presentato come suo solito in perfetto orario nello studio fotografico, dove aveva trovato seduto alla scrivania della segretaria di Giovanni C. un’altra sua conoscenza, un altro Gianni che pure aveva l’iniziale del suo cognome uguale alla sua. Una vità professionale cresciuta nelle agenzie pubblicitarie, come Art Director aveva inventato e diretto molte campagne che in quegli anni spopolavano su riviste e nelle televisioni. L’uomo si nascondeva dietro una barbetta incolta ed ad un paio di occhiali grandi come i fari di San Siro, dotato di rara arguzia e appassionatissimo pure lui di motociclette. “Ragazzi, scusatemi, la riunione in ufficio si è prolungata, sapete che quando siamo a programmare con Riccardo non si riesce mai a concludere… Allora che si fa andiamo a mangiare un boccone? Dai che abbiamo poco tempo qui bisogna ottimizzare…” Gianfranco aveva lasciato aperto la porta dietro di sé. Giovanni era riemerso dal set fotografico, quindi il gruppo si mosse alla trattoria che stava sul marciapiede di fronte alla corte. I tavolacci di legno scuro in stile vecchio trani disegnavano una scacchiera sul pavimento di graniglia all’interno del locale, le posate ed i bicchieri accompagnati da un calice d’acqua stavano allineati su tovagliette ritagliate con la carta da macellaio, quella carta color senape che è stata cancellata per le nuove norme igieniche vigenti. “Ti ci vuole un claim, Gianni… Andovvai se un claim ‘uncellai? Il prodotto ci sta, il fotografo pure, lui a ritrarre impazzisce, anche se sono soggetti inanimati… Guarda cosa ha fatto per le moto di Carlo Talamo… Magari un domani ci mettiamo anche un poco di fi@a che in un mondo di machi non guasta, tanto abbiamo lo spacciatore, ma dobbiamo trovarlo questo claim…” Così disse il creativo, con tutti i presenti che attendevano la sua mossa successiva. “Gianfranco, dammi ‘na penna và, che qui bisogna trovare qualcosa… Biffi di dove accidenti è il Marchio? Californiano? Bene, bene… Ma dove sta? A sud? uhmmm Monterey, San José…? “ “San Luis Obispo” rispose il Biffi prontamente. In un rigoroso silenzio Gianni si tolse i pesanti occhiali ed iniziò a scarabocchiare mezze frasi sulla tovaglietta macchiata da piccole macchie vermiglie di vino. “Qui sono tutti Chicanos, degli Americani hanno poco, la tradizione è puramente Messicana e sì… Te lo vedi il peone che torna a casa dai campi e si vede davanti l’uscio passare una San Andreas? Ma che può pensare? Un ufo!

¡ HOY MADRE ! che comunque è un esclamazione tipica di San Luis Obispo, da quando i Messicani costruirono la prima chiesa…

Pro-Meide – Libro I – Il Racing Team

28 Apr 2020

Libro I – Cap. V

Il Racing Team ovvero la compagnia della Pro-M.

La passione, non solo quella sportiva, ci conduce ad aggregarci, crea gruppi di primati evoluti che si radunano in tribù sotto l’egida di un maschio che viene riconosciuto dal gruppo come il capo per capacità intellettuali o fisiche. Spesso le due condizioni sine qua non di pari passo non vanno “Se avessi il tuo fisico con il mio cervello conquisteremmo il mondo” (Gianni Biffi citazione ciclica dal 1998). Considerato che il Dr. Frankenstein era reale solo nel libro di Mary Shelley, nel gruppo è necessario trovare l’equilibrio tra i componenti come in un cocktail esotico nonostante fossimo più prossimi ad un bicchiere di Campari col bianco dosato a casaccio da un barista alticcio in un bar della alta Val Brembana. Pro-M aveva adottato una politica commerciale inusuale ai tempi: vendeva direttamente al pubblico mantenendo lo stesso prezzo applicato negli Stati Uniti. Aveva preso la decisione di farlo escludendo i negozi, attivandosi sulla rete che stava evolvendo in modo esponenziale in tutti i campi commerciali. I primi anni Duemila segneranno la svolta e Gianni aveva intuito questa potenzialità, costruendo un sito web dove precorse l’e-commerce attuale: non pochi di Voi ricorderanno il primo configuratore di MTB che aveva anticipato persino le case automobilistiche in quei giorni! Ma il fatto che non avesse una vetrina, portava tutti gli appassionati attratti dalle sue pagine pubblicitarie ad andare in pellegrinaggio in Via Lucillo Gaio per una visita nel santuario dei sogni. Il fatto di soddisfare i propri desideri li portava a passare da un semplice Cliente da pret à porter ad essere il Cliente di una sartoria artigianale, servito e riverito dove si creava un empatia sottile complice la scelta del componente oppure il colore del telaio, dove tutto ti veniva cucito addosso: la tua bicicletta era riconoscibile come le cifre sulla camicia. Io non avevo cambiato ancora il tessuto, ma presto avrei iniziato a farmi fare i miei giocattoli su misura. Non era solo commercio quello che accadeva: quando il Biffi apriva la porta del tempio si entrava in una sorta di trance emotiva dove il tempo riprendeva il suo valore disquisendo di tutto e di nulla, di dettagli spesso agli occhi attuali poco rilevanti ma che erano importanti come la cucitura all’inglese su una giacca di Caraceni.

Poco importava chi fossi nella vita quotidiana se ricco o meno abbiente, monaco Hare Krishna o studente universitario oppure che avessi le orecchie a punta che rivelavano la chiara origine Vulcaniana, ma quello che era lapalissiano esondava dai fiumi di parole: volevamo condividere ogni singolo istante passato in sella alle nostre amate “bambine” (The Vice cit.) e li in quel magazzino si rivelava, come la liquefazione del sangue di San Gennaro nell’ampolla nelle mani del Cardinale. “When the Lord gets ready, you gotta move” (Mississipi Fred Mc Dowell cit.). Perché la guida in fuoristrada è come un blues suonato con il bottleneck: determiniamo passaggi glissati tra un sasso ed una radice e lo tiriamo più lungo possibile, modificando l’azione per alzare i toni…. Potrebbe non finire mai, oh yeah.

Il nucleo storico, lo zoccolo duro dei possessori di Mountain Cycle non erano degli atleti divorati dalla furia agonistica, erano la dimostrazione della summa epicurea: soffrire a quale scopo? Meglio prenderci del corroborante divertimento unito a tutto il tempo necessario per digerirlo. Gianni trovò semplice unire i Clienti che si erano raccolti intorno alla Pro-M coinvolgendoli in gite domenicali. Il tempo dei bike park era la da venire, l’artificiale non era ancora entrato nel lessico dei Bikers: anche le competizioni di discesa si svolgevano su tracciati naturali con piccoli aggiustamenti per la sicurezza dei partecipanti. Mi ricordo ancora un Gran Prix del Mottarone, che ricalcava il sentiero L1 che conduceva a Stresa: una coppia di fratelli Bergamaschi, Loris e Gianluca Bonanomi, sbaragliarono la concorrenza agguerrita mandando su tutte le furie il terzo arrivato Luca Benedetti che sbottò gettando la sua Pro Flex dotata di forcella Spring a corsa lunga a terra, dicendo “ti pare che due pistolini mi debbano stare davanti?” Immagino che tutti sappiate come sia proseguita la carriera di Gianluca, ma di questo ne scriverò più avanti nei nostri annali. Le gite si affidavano ai sentieri od ai tratturi che conducevano ai rifugi, disseminati come i canditi nel panettone, sulle montagne. Oppure avendo un retaggio da regolarista, si ripercorrevano in Brianza i tracciati delle speciali a San Genesio o a Consonno, il paese fantasma. Quindi era un andare in montagna simile allo scialpinismo invernale, più che salire e scendere sulle piste lavorate delle località alla moda, non avevamo ancora “inventato” il freeride.

Gita dopo gita il plotone si ingrossava sempre di più, in giro le “bambine di Pro-M” erano sempre più protagoniste, i biker sempre più protetti da gomitiere, parastinchi e caschi integrali con legato sulla schiena il Camelbak una sacca idrica integrata nello zaino pensata per le truppe Americane della prima guerra del golfo, ma poi sdoganate per un uso meno marziale. Non si utilizzavano sistemi di navigazione se non le mappe e la fiducia riposta in coloro i quali si offrivano come guide. L’evoluzione del gioco ormai era entrata in una fase molto molto dinamica, non tanto qui in Italia dove vivevamo si le glorie dei risultati dei nostri atleti nel cross country e nella DH, ma impaludati nelle rigide direttive della Federazione che non comprendeva l’ampiezza del movimento, o per lo meno non era così lungimirante: si immaginavano solo le competizioni, non le manifestazioni di più ampio respiro. Ad ovest i nostri cordialmente odiati cugini Francesi avevano, grazie ad un numero superiore di praticanti e di conseguenza di atleti in ogni disciplina, iniziato a mettere le basi di quello che oggi chiamiamo erroneamente enduro, forse dovremmo dire più correttamente All Mountain: manifestazioni aperte a tutti come delle gite tra amici, utilizzando gli impianti di risalita spesso e volentieri. La Freeride Classic, rally come la Transvesubienne, che fu pioniera del divertimento con chilometri e chilometri di singletrack entusiasmanti, paesaggi inaspettati e navigazione da Paris Dakar. La prima edizione risale al 1990 grazie ad un intuizione di George Edwards che cinque anni dopo sulla scia del successo ottenuto diede vita alla più incredibile, devastante ed adrenalinica maratona di discesa, la Megavalanche dell’Alp d’Huez.

Le notizie non correvamo come oggi così veloci, il principale veicolo erano le riviste e per avere un idea di cosa succedeva in giro per il continente ti toccava vendere un rene per poi recarti con il ricavato all’edicola in largo Treves dove trovavi tutto quello che desideravi leggere con la stessa arroganza di un tossico in astinenza… You gotta move. Era giunto il momento, la curiosità di andare a provare questa esperienza tripillava nei pensieri di Gianni. Fece ricerche, visionò il tracciato, sfogliò avidamente il regolamento e prese una decisione. Per accedere al numero chiuso dei 400 partecipanti della maratona DH all’Alp d’Huez era indispensabile oltre un bel certificato di sana e robusta attitudine sportiva, una società di affiliazione, perché il tutto si svolgeva sotto l’occhio socchiuso della Federazione Francese che pur non essendo strabica come quella Italiana, una parvenza di ufficialità la doveva garantire, vista la presenza di cronometristi e giudici. Una gara come questa lunga più di 25 km e con oltre 2,600 m di dislivello negativo non del tutto in discesa, anzi con lunghi tratti da “cross country addicted” da farti sputare i polmoni.

Un tiepido tardissimo pomeriggio di Maggio, Daniele T. e Gianfranco S. , che trovo lo spazio tra i suoi pressanti impegni mondani di presenziare, furono convocati in Lucillo Gaio dal Biffi che come sua abitudine aveva preparato tutta la documentazione in modo scrupoloso per dar vita ad un associazione sportiva. “Vi ho chiesto di venire oggi da me, perché è mia intenzione fondare un’associazione sportiva legata alla Pro-M. Non perché io abbia ambizioni da podio, queste le lasciamo a chi lo fa di lavoro, ma ho voglia di iscrivermi alla Megavalanche dell’Alp d’Huez che si svolgerà questo Luglio. Ho chiesto a Robert Reisinger di poter utilizzare il Logo di Mountain Cycle per abbinarlo al nostro nome… Il logo in linea di massima saranno i picchi delle scosse di terremoto con al centro la scritta Pro-M con sotto la semplice dicitura Racing Team, gentilissimo mi ha detto subito di sì. Quindi ci vogliono le figure istituzionali di riferimento: Presidente ,Vicepresidente e segretario: se siete d’accordo penso che tu, Daniele sia il segretario perfetto e per la carica di Vice tu Gianfranco vada benissimo visto il poco tempo che hai a disposizione, saresti come Al Gore per Bill Clinton, conteresti poco, ma sarai sempre al mio fianco.” Daniele scosse il capo in cenno di assenso, la sua posizione era perfetta per lui, Gianfranco sfoderò uno dei sui migliori sorrisi a suggello della nomina. “Biffi che @igata! Non vedo l’ora di mettere gli adesivi Pro-M Racing Team sulla bici! Il marchio sulle bici serve, arricchisce il prodotto”. “Guarda anche se hai gli adesivi sul telaio rimani un paracarro, non che da un mulo tiri fuori Ribot”. Daniele lo sfotté ferendo il suo lato competitivo, tanto che un vaffà volò sonoro nel capannone. Così Gianfranco divenne per tutti gli accoliti appassionati del Racing Team “The Vice” e questo nickname lo segue ancor oggi anche se di lui abbiamo perso le tracce da qualche anno, ma rimane sempre nei nostri cuori.

Il Giovedì che precedeva un fine settimana di fine Luglio, Gianni caricò nel furgone che non profumava di gasolio la San Andreas nera di Marco P. , la Shockwave rossa di Bruno “Che Bici!” (il cuoco del ristorante Hare Krishna di via Torino ndr.) che sfoggiava una Risse da 200 mm doppia piastra e la sua candida e immacolata San Andreas che il buon Marnati aveva finito poche ore prima cercando di alleggerirla il più possibile perché Gianni conoscendo le sue capacità fisiche e studiato il tracciato si rese conto che la tattica giusta era una bicicletta che avesse sì delle escursioni adeguate ma era importante che fosse pedalabile, poco pesante e tanto, tanto scorrevole. Questo fu il primo di tanti viaggi, fine settimana e settimane in giro per l’Europa, e non solo, che il Racing Team fece. Si alternarono decine e decine di Bikers donne e uomini nelle Domeniche degli anni successivi, alcuni si persero strada facendo, abbandonarono le attività, si dedicarono chi alla pesca, chi alla moto e qualcun altro fu fagocitato dal lavoro o dalla famiglia. Si instaurarono solide amicizie, che vanno oltre la passione per la bicicletta. Magari non ci frequentiamo molto ma quando ci si vede per un uscita da “Fanigutuni” (espressione vernacolare sempre lombarda che nasce da “fàa nigòtt”, non fare nulla, cosa in cui riusciamo sempre bene il podio è nostro), il fatto di condividere anni di amicizia, sembra esserci salutati pochi giorni prima solamente con qualche ruga e capello grigio in più e una nuova bambina da accudire.

L’amicizia è un’anima che abita in due corpi. La natura non fa nulla di inutile (Aristotele 384 a.C. 322 a.C.).

Pro-Meide – Libro I – Papà Gambalunga

27 Apr 2020

Libro I – Cap. VI

Papà Gambalunga

“Cosa fare per migliorare le mie bambine? Il peso, bisogna ridurre il peso come in un programma weight watchers, limando su componenti, ruote e gomme: lo posso fare. Questo è l’aspetto semplice da affrontare, quello che qui bisogna trovare è migliorare la geometria e le sospensioni.” In effetti la tendenza era di allungare le escursioni ma solo in ambito discesistico: le front erano le più vendute, era più facile vedere un’ apparizione della Madonna a Medjugorje che una biammortizzata con freni a disco sui sentieri. Chi aveva un retaggio motociclistico e soprattutto il desiderio di non devastarsi la schiena, cercava come Gianni il continuo miglioramento del mezzo, del resto la bici migliore è quella che non è ancora uscita sul mercato. Quindi siamo sempre alla ricerca di un miglioramento, non poteva immaginare che quel giorno un altro tassello sarebbe saltato.

Quello che bisogna sapere è che i costruttori non avevano le idee ben chiare su questi due aspetti: l’angolo di sterzo era verticale quanto il canale Marinelli su monte Rosa ed il movimento centrale se la giocava con l’antenna in cima all’Empire State Building fortunatamente senza King Kong a prenderci a schiaffi. Le sospensioni fino a quei momenti erano oneste, spesso un paio di AJ 1 avevano una risposta elastica migliore.

Questa ricerca, che ormai era un’ossessione, coinvolgeva Daniele Marnati ogni qualvolta il Biffi entrava nell’officina di via Delfico dove il braccio meccanico di Pro-M costruiva i telai che portavano il suo nome “MARNATI” dipinto sul tubo obliquo con quel sapore che oggi chiameremmo vintage, proseguendo la storia artigianale che suo padre aveva iniziato negli anni quaranta.
“Signor Biffi, buongiorno il Daniele l’è de là a saldà, aspeta che vù a ciamal un atim che le riva”. La Sig.ra Marnati, mamma di Daniele, presidiava l’ingresso in officina dietro ad un bancone di legno. Stava impettita come una guardia Svizzera davanti al Vaticano, vestita con un’eleganza di altri tempi e con i capelli sempre in condizione perfetta, facendo si che nessuno potesse entrare in officina filtrando Clienti ed amici ma soprattutto i pensionati nullafacenti della via, vere mine vaganti tra il bar di fronte, la chiesa chiusa e le bici esposte in vetrina che cercavano di entrare con la scusa di parlare dei pettegolezzi del quartiere con Lei, ma il fine era di guardare Daniele all’opera nelle registrazioni fini con sommessi borbottii, orfani di cantieri in zona.

Abbandonava la postazione solo in casi estremi, giusto se entrava uno come Gianni, altrimenti stava immobile continuando a leggere o a fare le parole crociate, prima o poi Daniele sarebbe rientrato dal suo laboratorio dove saldava e torniva in fondo alla corte alle spalle della ferrovia. Sarebbe riemerso insaccato nel suo camice blu con aria interrogativa ed occhiali abbassati sulla punta del naso. “Biffi non ho tempo, ho da finire dei telai, se hai da lasciarmi qualcosa metti lì che poi ci penseremo, tant per capì cosa hai portato?”

In quegli anni tumultuosi, l’evoluzione era in piena rampa di lancio. Le discipline cross country e DH si stavano evolvendo prendendo strade opposte, la specializzazione era ormai nel destino della mountain bike; solo pochi anni prima non si consideravano corse superiori a 130 mm pensando che fossero il limite per i mezzi da discesa. Su richiesta degli atleti, che si sentivano defraudati dai mezzi non all’altezza, gli ingegneri iniziarono a costruire forcelle a steli rovesciati sulla scia della Suspenders System II che nel 1991 Robert Reisinger aveva costruito per abbinarla alla San Andreas… Torniamo sempre lì.

Qualche anno dopo un Ingegnere tedesco, Peter Denk, presentò una sua creatura con una corsa mostruosa per i tempi: più di 160 mm al posteriore ma senza un sostegno adeguato all’anteriore, si disse che non era quella la via, un esercizio di stile inutile. Cannondale che era un azienda dinamica ed innovativa, fino al buco finanziario regalato dalla voglia di costruire e vendere una moto da cross che fosse pensata e costruita in alternativa ai colossi Giapponesi, propose nel 1998 una doppia piastra di nome Moto da 80 mm che poteva raggiungere i 120mm nella versione più cattiva. Non ebbe un successo epocale ma segata a metà diede origine alla Lefty. Nel frattempo Brent Foes un nome che entrerà a far parte della scuderia Pro-M per qualche anno aveva costruito nel suo garage tre anni prima la F1, una massiccia a steli rovesciati da 127 mm di derivazione motociclistica al grido di “abbattiamo le masse sospese” .

La costa Californiana era in fermento ed anche Kevin Risse, ex dipendente Fox Suspension, si era messo a produrre la “The Champ” e la “Trixxxy” un’ argentea doppia piastra a steli rovesciati anch’essa, che aveva escursioni da 4,5 pollici ( 115 mm) a ben 7 pollici (178mm). Il chiodo fisso del Biffi sembrava lì dall’essere scardinato dalle ultime novità della Sea Otter Classic.
Da giorni aveva in consegna un telaio innovativo, una vera scossa sismica nel nostro mondo! Robert Reisinger lo aveva anticipato qualche mese prima: una evoluzione della San Andreas con un escursione monstre di 200 mm al posteriore con un leveraggio che permette di variare la curva di compressione. Queste caratteristiche la fiondano nel mondo della DH senza alcuna altra soluzione, ma aveva anche la possibilità di montare una torretta estraibile per il deragliatore della guarnitura fatto che amplificava il campo di utilizzo, cosa che fece scattare la molla del grilletto della dimensione onirica: la bici totale. Finalmente era stato consegnato e il giorno stesso, raccolti tutti i componenti e la prima Trixxxy ricevuta, Gianni si era fiondato in via Delfico per chiedere al Marnati che faceva come di suo il burbero di prepararla per il set fotografico. Tempo per provarla ne avrebbe avuto il fine settimana, ora era ansioso di metterla sulla bilancia…

Daniele sapeva già che cosa volesse e pulendosi i palmi delle mani nel camice si avvicinò allo scatolone dove stampato “MANEGGIARE CON CURA!” campeggiava su tutti i lati. “Non capisco, ma mi adeguo… dai fammi vedere”. Gianni aprì sotto gli occhiali sghimbesci sul naso di Daniele il cartone che conteneva la Shockwave, questo il nome della bimba rossa conturbante e muscolosa con dettagli oro quasi fossero gioielli al collo di una signora, che avrebbe messo in moto una rivoluzione nell’andare in MTB: il freeride! Ma questo non lo sapeva ancora mentre la guardava strizzando gli occhi: l’era delle sospensioni a corsa lunga fuori dal mondo delle competizioni di DH era prossimo a venire.

Marnati era avvezzo alle realizzazioni che Gianni gli faceva fare da tempo: aveva già montato alcune San Andreas con forcelle dalla corsa lunga ed anche tradizionali doppia piastra, ma il limite della sospensione posteriore era troppo evidente ed il monocross non aiutava l’azione avendo corse ridotte. Questa era decisamente meno bella della sua sorella maggiore affinata ed elegante, così un poco tracagnotta e caratterizzata da un telaio scatolato con profilo ad Y innervato in più punti che la rendeva meno oggetto d’ammirazione per i puristi del Marchio, ma in ogni caso in quel momento era il prodotto a corsa lunga che mancava, quello che il Biffi attendeva nonostante lui fosse ed è ancora oggi innamorato della San Andreas.

“Dai Daniele vedi se riesci a finirla per dopodomani, ti chiamerò domani sera per sapere come va”. Gianni, salutò la Sig.ra Marnati, che non si era mossa di un centimetro dalla sua posizione tutta presa nell’ascoltare la loro conversazione, lo ricambiò con un mezzo sorriso compiaciuto abbassando lo sguardo su quello che stava leggendo.
“Oh se ce la faccio te la monterò per dopodomani, altrimenti quando sarà pronta l’avrai… Non è che se dopodomani non c’è il mondo non va avanti. Vivi lo stesso eh…” In cuor suo Gianni sapeva che l’avrebbe ultimata e molto prima di dopodomani, lo conosceva bene: questo suo modo di fare era una straordinaria armatura contro gli imprevisti della vita di fronte a quello che non conosceva e che era lontanissimo dai suoi canoni. Non capiva questi che volevano girare con bici che avevano ben poco che fare con quegli otto tubi che lui aveva imparato a conoscere da bambino, adesso con tutto quello scatolato in alluminio dove saremmo finiti?

Certo li faranno di plastica come ha fatto Bob Girvin, così anche le saldature non avranno più senso e la meccanica andrà a fare un bagno nel Naviglio, poi quella forcella bella, ma a che scopo?. “Di escursione non c’è né mai abbastanza, ricordatelo…” era come se Gianni leggesse nella mente di Daniele, lo conosceva così bene che non erano necessarie domande. “Gianfranco avrebbe citato John Holmes, io invece cito Joshua Bender”
Del resto tutta quella fretta che Papà Gambalunga aveva era più che giustificata: era il mezzo più prossimo ad una moto da fuoristrada che potesse concepire, che potevi pedalare in salita e far scatenare in discesa. Era il sogno di molti di noi che rese distintivo il Pro-M Team : il gruppo fece sua questa filosofia, la portò in giro ovunque da veri ed autentici discepoli epicurei tra una birra ed una risata.

Si tirò la porta alle spalle e lentamente si avvicinò al furgone. Ricevette l’ennesima chiamata, innestò la prima e si allontanò con uno stridio di pneumatici evitando il solito pensionato che attraversava la via Delfico in direzione dell’officina.

Pro-Meide – Libro I – Le Betulle

26 Apr 2020

Libro I – Cap.VII

Le Betulle (il Pian delle … non la casa di cura)

La Valsassina è il giardino di casa dei Milanesi: una valle racchiusa tra il gruppo delle Grigne ad occidente ed il gruppo delle Alpi Orobie che come un falcetto da oriente a settentrione la separano dalle valli Bergamasche e dalla Valtellina. Negli anni del ruggente boom economico Lombardo fiorirono impianti di risalita come i narcisi a primavera grazie alle abbondanti nevicate ed al benessere che crescente permetteva di possedere una casetta nei paesi disseminati ai piedi e lungo il versante orientale: Piani di Bobbio e di Artavaggio, Alpe Giumello, Alpe di Paglio e Pian delle Betulle erano le mete invernali ed estive di tutti coloro i quali fuggivano dallo smog e dalle nebbie della gran Milan.
Essendo cresciuto ed avendo vissuto fino ai tempi delle superiori a Lecco tra escursionismo, alpinismo e moto da trial avevo passato molto tempo a zonzo tra cime e rifugi. La pratica della MTB poi aveva ridato impulso ai ricordi adolescenziali, andavo a ripercorrere con lo spirito di scout i sentieri che, come la ragnatela di un ragno attende la preda, collegavano i rilievi delle montagne alle spalle del lago.

Gianni anche lui, aveva trovato il suo “buen retiro” ai Piani delle Betulle, da anni spendeva le ferie estive in questo alpeggio che offre un’impareggiabile vista sul lago di Como e Lugano e sulle Alpi, a volte il Monte Rosa sembra messo li davanti come fosse un opera di Mosè Bianchi alla Pinacoteca Ambrosiana. Inoltre c’è un incantevole isolamento dal traffico poiché si può salire solamente con la funivia da Margno, essendo da secoli meta dei bovini da latte dei valligiani, i sentieri ed i tratturi più o meno accidentati non mancano, quindi un terreno perfetto per le biciclette. La gita principe, quella che ti metteva alla prova, era un giro di 40 chilometri con 1.900 m di dislivello che partendo da Margno ti conduce a Crandola per poi salire alle Betulle e ad affrontare le ripide balze tritate dal passaggio dei mezzi fuori strada dei pastori che portano al Larice Bruciato dove soli i più ardimentosi e dotati di gamba degna di Hulk le facevano in sella, per poi rilassarti per poco tempo, pronti ad affrontare un tratto poco pedalabile ai tempi dovuto all’erosione del sentiero che ti conduce fino alla Bocchetta di Agoredo.

Qui fu anche il luogo d’incontro con una coppia marito e moglie che incrociarono Gianni mentre saliva solitario: Lei pedalava una Moho rossa fatto che incuriosì parecchio il Presy (questo nick lo dobbiamo a questa Signora tempo dopo) poiché era l’importatore del Marchio. Una chiacchiera tira l’altra e così dopo l’invito fatto di vedersi una prossima volta li ritrovammo il fine settimana dopo in gita con noi e da quel giorno avremmo condiviso molto con Maurizio “Spiderman” e Pinuccia guarda caso “Red Moho” che sarebbe stata la biografa dello zoccolo duro del Pro-M Team.
Qui alla bocchetta avevamo il sentiero martoriato dal passaggio delle vacche quindi a spinta ti devi guadagnare ancor oggi altri metri di dislivello fino alla costa di Biandino, dove maestoso ed inquietante il Pizzo dei Tre signori ti osserva come fosse l’occhio di Sauron, sperando sia benevolo e non scarichi tuoni e fulmini alla nostra calcagna manco fossero i suoi orchi.
Ma con magno gaudio di noi bikers si percorre un sentiero che sembra stato disegnato con un pennello giapponese da scrittura, marcato ma senza sbavature fintantoché lungo la vertigine che si spalanca alla nostra destra il più ardimentoso dei test dei tempi ci attende: el sentier di vacch.

Questa linea è una profonda cicatrice mal rimarginata creata dal passaggio annuale delle mandrie che scendevano nella valle sottostante ad occupare gli alpeggi carichi di genziane proteggendo le spalle al santuario della Madonna della Neve. Stretto ed incassato ti costringe ad un unica traiettoria, i pedali spesso vanno in conflitto con le sponde create dai ripetuti passaggi dei bovini che per nostra fortuna hanno più testa di noi e quindi evitano i cambi di direzione troppo ripidi ma non per questo evitano dei dietrofront a novanta gradi. Ci faceva sentire eroi percorrerlo senza scendere di sella, visto che pur di non graffiare il reggisella Thompson, che era un componente esoterico in quei tempi in attesa di un telescopico che sarebbe arrivato un paio di lustri dopo, non si abbassava (ogni riferimento a persone di cui leggete in questa narrazione NON è puramente casuale). In quel periodo usavo dei pedali Kore leggerissimi e stilosi, peccato che lo sgancio fosse a volte molto complicato se non scalciavi come un mulo e spesso nell’affrontare i cambi di direzione dove mettevi i gioco l’equilibrio tanto eri in avanti con il manubrio, ti ritrovavi al tornante sotto fatto su come una salamella. Quando arrivavi alla fine decisamente provato la gippabile nella valle ti portava fino ad un ponte dove appena superato alla nostra destra il sentiero del Bitto ti invitava a percorrerlo, facendoti fare conoscenza con le mulattiere che avevamo avuto come esame da piccoli trialisti, un duro saggio per spalle dita e soprattutto freni.

Quelli della B5 erano, e non ho mai capito per quale motivo li avesse concepiti in quel modo, a disco idraulici ma comandati meccanicamente: la pinza conteneva l’olio che azionava le pastiglie, la quantità di olio al suo interno non riusciva a dissipare il calore generato quindi dopo un uso intenso e prolungato scendevano in sciopero lasciando ogni speranza di frenata. Dopo aver condotto le danze lungo il sentiero precedendo Gianni ed i compagni di avventura, rientrammo sulla gippabile che rapidamente ci avrebbe condotto a Introbio e, presi come in un indiavolato giro su un anello da speedway, in un sorpasso al limite della penalizzazione i freni decisero di non collaborare, facendomi andare diritto in un curvone a destra. La sfiga ci vede sempre bene! Finii in mezzo alle sterpaglie perdendo nell’ordine: telefono, portafoglio, chiavi di casa e chiavi della moto perché mi ero dimenticato la tasca dello zaino aperta… Questa gita rimase negli annali del Pro-M Team tanto che ogni volta che ripercorriamo il giro ci fermiamo per una preghiera a San Cul@ visto che ritrovai tutto. La parte noiosa di questo splendido giro è il rientro su asfalto fino a Margno, ma eri talmente sfatto che riuscivi ad apprezzare pure la statale. L’episodio mi fece ben comprendere che dovevo passare all’artiglieria pesante quindi il giorno stesso seduti davanti ad una panachè al bar della funivia ordinai una Shockwave a Gianni, una bimba color verde Kawasaki in omaggio a Reisinger ed alle mie moto da cross preferite.

La funivia che caricava le biciclette evitando di risalire pedalando dall’Alpe di Paglio che fatta una volta poteva essere anche piacevole ma che ripetuta più volte diveniva sovrumana, diventò il motore di quello che da lì a poco sarebbe accaduto. Gianni conoscendo i vertici della Società di gestione dell’impianto prospettò la potenzialità offerta dall’arrivo dei Bikers: avevamo in quel momento un vasto gruppo che ci seguiva e la diffusione delle bimbe dalle gambe lunghe aprivano i sentieri che scendevano in valle al Freeride.
Di chirurgia plastica ancora non se ne parlava sui percorsi, quello avevamo e ci piaceva cosi non soffiavi le foglie, non levavi i rami sennonché fossero di traverso, la guida era un concentrato di ignoranza e colpo d’occhio, non avevi il tempo di sbagliare, ti dovevi astrarre e trovare la linea migliore che con il passaggio di altri non sarebbe mai stata la stessa. Ci riappropriammo dei sentieri che con l’uso della funivia erano stati dimenticati. Gianni visto che, settimana dopo settimana il numero dei Bikers aumentava, si mosse coinvolgendo i gestori che avevano sotto gli occhi il centinaio di appassionati che ogni fine settimana si ritrovavano alla partenza dell’impianto e le autorità del Comune poiché andavamo a percorrere i sentieri di loro competenza. Si era creato un incremento di presenze nei bar, ristoranti ed alloggi: un segnale di quello che in questi anni sarebbe diventata una risorsa per le stazioni di media montagna che non avendo più la neve copiosa in inverno si ritrovano a dover chiudere le loro attività. Non si chiamava ancora Bike Park, non ne avevamo l’ufficialità, ma lo era a tutti gli effetti. Certo senza regole precise, senza trail builders, ma con tanta passione, studiavamo le mappe per veder dove fossero i sentieri, da quale alpeggio partissero ed andavamo a riscoprirli per poi condividerli con quelli che avremmo incontrato alla biglietteria incuriositi dal passaparola che si era creato. Alla funivia ci fecero un ingresso preferenziale sul retro visto che la coda multicolore dei guerrieri del fine settimana si allungava sempre più, i tempi di attesa iniziarono a farsi lunghi, non vedevano così tanta gente nemmeno con un metro di fresca in Gennaio.

Questo successo di partecipazione portò Gianni a coinvolgere Gianluca Bonanomi nella costruzione della pista permanente da DH che partiva dalla cima Laghetto: chi meglio di uno dei miti della specialità poteva innalzare il livello? Il Bona disegno sul manto erboso una linea tecnica ed accattivante che non tradiva il suo disegnatore, un tracciato che poteva sembrare senza difficoltà… Ma solo all’apparenza e quella di solito inganna. Eravamo travolti da un turbinio di idee ed una di queste diede vita alla prima edizione della BaraOnda Freeride una gara evento che metteva tutti sullo stesso piano, dove non vinceva chi andava più forte ma chi si avvicinava al tempo che Gianni aveva scelto tra 3 tempi di riferimento e poi estratto a sorte. Non era una manifestazione per “celoduristi” tutto casco integrale e testosterone, ma per chi aveva nella regolarità, nella scelta delle linea di discesa e un discreto cul@  l’asso nella manica.
Abbiamo trascorso Domeniche splendide al Pian delle Betulle, era la nostra casa di cura dell’anima, tra chi rientrava al piazzale della funivia sanguinante manco avesse incontrato un “leone” nel bosco, quello che si ritrovava a spingere la bicicletta su dalla salita con entrambe gomme sbragate ed un giro con le varianti Freak, pericolosissime conoscendo bene il personaggio che le ispirava, verso Margno o Crandola.

Ma come tutto prima o poi ed in questo caso troppo presto il giocattolo si ruppe. Un mattino il postino suonò alla porta di via Lucillo Gaio, 7 chiedendo del Sig. Giovanni Biffi. Aveva una raccomandata del comune di Margno per lui: la missiva intimava di ripristinare lo stato originario dei sentieri che erano stati, secondo la stessa, messi in condizione di non percorribilità dall’uso improprio dei Bikers e l’immediata dismissione della pista di discesa del Laghetto con ripristino del “cotico erboso” dei pascoli .
Gianni non accusò il colpo, gettò la raccomandata sulla scrivania e pragmatico diede tutto in mano al legale. Una cosa però gli bruciava: la piccolezza del gesto fatta da chi pensava ne ricavasse lustro, che non era in grado di vedere oltre la punta del naso. Quello che era stato fatto solo per puro divertimento fu l’embrione dei Bike park che frutta, in alcune altre zone d’Italia, introiti per migliaia di Euro, magari il Pian delle Betulle non sarebbe diventato Finale Ligure, ma chissà se fosse andato avanti…
Le mucche Highlander all’alpe Oro ancor oggi si chiedono che fine hanno fatto quei guardinghi bikers che il fine settimana, gli scandivano con il loro passaggio le ore al pascolo.

Pro-Meide – Libro I – La stagione degli esperimenti viene e non se ne va

25 Apr 2020

Libro I – Cap. VIII

La stagione degli esperimenti viene e non se ne va

 

Mi sa che da piccolo il Biffi giocava con il piccolo chimico… Non con l’allegro chirurgo perché lì bisognava solo rimettere a posto gli organi senza fa prendere la scossa al paziente, non sostituivi fegato o polmoni con altri organi facevi solo il check, stop. Il chirurgo lo lasciava fare a Marnati che rinchiuso nella sua officina mescolando telai, viti, cavi e componenti fin tanto che creava l’essere perfetto, talmente perfetto che mai uno era uguale all’altro perché la perfezione porta sempre ad non essere mai soddisfatti. Ne ho quasi la certezza che la sperimentazione fosse il volano delle prove che gli ho visto eseguire spesso e volentieri positive ma a volte pirotecniche, il tutto al fine di migliorare le sue amate bimbe. Alla teoria ovviamente seguiva la dimostrazione pratica che veniva svolta durante le uscite del fine settimana, normalmente con il resto del Team pronto ad assimilare se positiva con Gianni nel ruolo periglioso di collaudatore, visto che le idee non si limitava ad enunciarle ma soprattutto a darne prova.

Considerato che la MTB era e rimane una passione che darebbe da lavorare ad un sacco di psicologi per dare una spiegazione scientifica della diffusione di questa sindrome che ti mette a riposo fisico per cinque giorni, scartabellando ai tempi le riviste per vedere novità e migliorie dando segni di grave astinenza da prodotto perché non tutti vivono della propria passione e di altro bisogna pur vivere, facendoti anelare in ogni minuto lasciato libero i due giorni dove ti potresti scatenare, sempre che il meteo sia positivo e che gli impegni familiari non ti costringano ad uscite istantanee che normalmente hanno lo stesso sapore di una minestra liofilizzata. Ricordo Bikers che dovevano tassativamente rientrare alle 12,30 della domenica per presiedere il pranzo o che in nome della passione uscivano ad ore antelucane calcolando i tempi degli spostamenti al millesimo di secondo cosa che i distacchi in una gara di slittino sembravano ore. Peccato che quando sei in bici, tutti lo sappiamo bene, il tempo se ne vola alla velocità della luce e quindi il portarsi un amico consenziente che era il capro espiatorio del ritardato rientro in famiglia risultava essere fondamentale. “Amoreeee… scusa ma sono in ritardo, il Freak come sempre se non combina disastri non è lui. Pensa che ha forato tre volte abbiamo finito le camere… Stiamo tornando a piedi… Dai, un’oretta e ci sono”. Pinocchio aveva un naso piccino, piccino a confronto.

Cosi i nostri amici contagiati si aspettavano sempre l’ultima novità ed era un continuo aprire discussioni sulla validità dell’evoluzione non tanto tra di noi ma con gli altri Bikers alimentando querelle che sfociavano in interminabili discussioni quasi ci fossero Passatisti contro Futuristi (noi eravamo da questa parte alla faccia della Nike di Samotracia).
In quel periodo aureo dello sviluppo, come già accennato le geometrie erano un attimino rudimentali e la maneggevolezza il difetto peggiore: il movimento centrale era molto in alto soprattutto sulle San Andreas, Gianni riuscì a dare più stabilità aumentando la corsa della forcella ma nonostante tutto i miglioramenti non erano sufficienti. Come si poteva ancora fare per arrivare al risultato desiderato? Voleva abbassare il baricentro ma non avendo eccentrici che lo permettessero si poteva fare solo una cosa: cambiare il diametro delle ruote e passare da 26 a 24 pollici. La maggior corsa e l’angolo più aperto avrebbero supplito alla minor facilità nello scavalcamento degli ostacoli, il minor diametro rendeva le ruote più robuste, risparmiando rotture ai cinghialoni del Team (come sempre ogni riferimento a persone NON è puramente casuale, è autoreferenziato). Subito dopo quei primi esperimenti iniziarono ad affacciarsi bici con ruote dal diametro 26 sull’anteriore, 24 al posteriore sempre per aumentare l’angolo, ma per Gianni era raggiungere un altro obbiettivo: renderla molto più gioiosa e giocosa di quanto non lo fosse, il progetto aveva ormai più di dieci anni e a parte aver allungato la corsa dell’ammortizzatore, poco era cambiato. Con l’arrivo di ruote da 24 pollici la ricerca dei pneumatici diventò una priorità, pochissime aziende le producevano e fino a quel momento la sezione più in voga era 2.2 considerato un limite per le bici anche nel DH. Eppure un’azienda Finlandese la Nokian, stato che si conosceva allora soprattutto per la Nokia quella dei telefoni portatili, oltre a produrre ottimi pneumatici invernali per auto aveva un buon catalogo di gomme da bicicletta 24 e 26 pollici dove spiccava un modello nominato Gazzaloddi offerto in diametro 3.0 pollici e successivamente in un “modesto” 2.6 . Come Jake “Joliet” Blues dopo aver visto la luce, il Gianni non ebbe pace fintanto che non riuscì ad importarne un lotto, era in missione per conto del divertimento e quello non aspettava.

Come sempre i Passatisti ciclisti, che son sempre la maggioranza, si prodigavano con “assennati” giudizi nei confronti di tutto ciò che usciva dalla loro “confort zone”; tipico di coloro che giusto perchè un loro amico che ne capisce gli aveva detto che non servono ad un razzo anche se non li aveva mai provati i Gazzaloddi. Si spellavano le dita scrivendo post al veleno sui primi forum pur di poter essere portatori di certezze… A volte l’è puse facil metegela in thel cù che nel cò (è più facile convincerlo a mettersi prono piuttosto che stare a disquisire elegantemente sul senso della vita per renderlo edotto… Traduzione a cura dei non Lombardi). Ma essere caparbi ed aver provato sul campo e non sulla tastiera il prodotto diede ragione a Gianni: il Gazzaloddi ebbe un ampia diffusione soprattutto nelle discipline gravity e sulle front da Dirt aprì una strada che sarebbe stata ripercorsa molti anni dopo con le Plus… Le 2.6 sono ormai le gomme di ordinanza delle moderne 29.

Ma tenerlo fermo era come riuscire ad azzittire il Freak, la ricerca non poteva fermarsi, qualcosa di nuovo da testare c’era sempre anche per migliorare un prodotto che si utilizzava sulle Mountain Cycle: i dischi del freno Pro-Stop. In quegli anni era un prodotto molto all’avanguardia per potenza e modulabilità, affidabili e poco inclini alla fatica. I dischi flottanti come da miglior tradizione motociclistica per contenere il peso vista la sezione ed il diametro, erano forgiati in alluminio e poi induriti da anodizzazione metallica dura. Il problema che si presentava era l’usura della stessa che impediva di avere una costante risposta del freno, arrivando a consumare il piatto di alluminio. Questo grazie alle velocità e sollecitazioni che in origine non furono riscontrate, dato che ora avevamo a disposizione mezzi come la Shockwave che ci permettevano ben altre prestazioni. Bisognava trovare un’alternativa che fosse altrettanto in linea con i pesi per ridurre il problema delle masse sospese vista la dimensione dei dischi (228 ant. e 208 post. ndr.). Gianni fece una scelta che sembrava in linea con i requisiti richiesti, sarebbero stati realizzati in titanio, metallo di derivazione aeronautica che nel mondo della MTB aveva preso piede per la realizzazione di viteria, componenti e di telai che sfruttavano il peso specifico e le caratteristiche meccaniche: John Castellano fondatore del marchio IBIS, che ammiro dal 1995, costruì la BowTi con il pregiato materiale: una straordinaria ed incredibile 5 pollici di corsa senza alcuno snodo… fu una delle visioni più estreme dello sviluppo nel settore MTB.

Ben presto i prototipi vennero pronti, il chirurgo li installò e una delle tante domeniche che passavamo al Mottarone Gianni si preparò al test. Per onor di cronaca soffre da idiosincrasia acuta da protezioni a parte il casco ovviamente, non l’ho mai visto indossare ginocchiere, pettorine od alla peggio gomitiere… Quel giorno sembrava essere un normale giorno di prove per vedere se i dischi in titanio erano la soluzione al problema. Il titanio è un metallo molto particolare ha un punto di fusione elevato pari a 1668 °C, resistente alla corrosione, ottimo per l’impiego nella costruzione di macchinari che possiedono parti destinate alle alte velocità con attrito quindi che resistono alla scalfittura come le pale delle turbine dei motori aeronautici: era la scelta giusta esoterica, ma tecnologica e leggera. Il problema del titanio è la trasmissione del calore e del suo indice di durezza, le pastiglie dei freni sono concepite per una pista di acciaio che ha durezze ben diverse, ma quando si sperimenta non sempre ci si focalizza sui dettagli. Si cominciò a scendere precedendolo, lungo uno dei sentieri che portavano alla strada asfaltata con passo allegro e giocoso: visto che avevamo perso il contatto con Gianni ci fermammo in sua attesa. Il nostro collaudatore arrivò poco dopo adducendo il ritardo a poca sicurezza in frenata. Quindi giù in discesa a velocità ancor più sostenute sull’ asfalto verso Gignese. Lo spettacolo che da lì a poco ci si propose era degno dei migliori fuochi pirotecnici sulla costiera Amalfitana a Capodanno. Cercando di rallentare dato che la velocità iniziava a farsi troppo elevata ci vedemmo sfilare dalla Shockwave impazzita con in sella un Gianni urlante che teneva quattro dita sulle leve e che cercava di rallentare in tutti i modi, circondato da una girandola di scintille multicolori generate dall’attrito delle pastiglie sui dischi. Un carro allegorico non fosse che scendeva ad una velocità assurda!
Poi come quasi in tutti questi momenti riuscì a trovare una riva che gli permise di rallentare ed alla fine a fermarsi. “Guarda che la Forestale ci denuncia se metti a fuoco il bosco, poi Capodanno a lì da venire, siamo in Piemonte e certe manifestazioni di giubilo non sono comprese fino in fondo, non anticipiamo i tempi, già “non ci sono quasi più le stagioni di una volta…” Per sdrammatizzare credo che appurato che danni fisici e meccanici non ne avevamo portati a casa un poco di sana presa per i fondelli ci potesse stare…

“Esperimento abortito, qui bisogna passare a qualcos’altro per oggi abbiamo dato abbastanza… quasi vado a fuoco!”. Sorrideva in quel momento, ma l’episodio lo portò a cercare alternative di materiale e poi di prodotto. Da lì a poco un impianto dalle pinze rosse sarebbe entrato a far parte dei montaggi Pro-M e avrebbe messo in pensione gli storici Pro-Stop. “Non è sintomo di intelligenza non cambiare idea e soprattutto se non hai prove oggettive sul corretto funzionamento dei prodotti non puoi esprimere giudizi”. Gianni appoggiò la schiena esausto alla sedia del bar della funivia, la panachè che ci stava occhieggiando sul bancone del bar rimase li giusto qualche secondo.

Lo vedevo assorto, taciturno, la condizione che esprime quando ha un giramento di scatole, sapevo che il Lunedì sarebbe corso a cercare qualcosa altro da testare, non voleva stare senza una nuova sfida pronta per la prossima uscita.
Da quando lo conosco non si è ancora fermato dopo che ha visto la luce…

Pro-Meide – Libro I – La Famiglia si allarga

24 Apr 2020

Libro I – Cap. IX

La Famiglia si allarga

Insomma i giorni sul calendario dal 13 ottobre 1997 erano volati tra idee, collaudi e nuovi modelli che avevano arricchito la gamma di Mountain Cycle, ma Gianni come si usa dire a Milano “El stava nò cunt i man in man” (espressione idiomatica Milanese che rassicura sul fatto che all’ombra della Madonnina son tutti indaffarati nel loro produrre, come api operaie in un alveare. Traduzione per i dotti non avvezzi al dialetto Meneghino), aveva importato dagli Stati Uniti una FOES DHS mono con ben 8 pollici di corsa (203 millimetri al cambio metrico) messi in opera dal sistema LTS, che aveva stravolto i parametri delle inefficienti sospensioni che erano sul mercato. Il suo costruttore Brent Foes un altro “One Man Band” del mondo MTB come Reisinger veniva dal settore motoristico, per essere più precisi era un progettista che aveva lavorato soprattutto con Ford e Nissan nella realizzazione di Pick up a quattro ruote motrici, nel 1992 si sarebbe messo in proprio fondando la Bicycle Division of Foes Fabrication, iniziando a costruire telai percorrendo la strada aperta dal bulldozer Mountain Cycle solo quattro anni prima. La sua intuizione più interessante, senza nulla togliere ai telai monoscocca ed alle forcelle F1 che introdussero le corse oltre i 7 pollici, il perno passante da 30 mm e la barra di reazione per svicolare il freno dall’inibire la sospensione in frenata, fu l’adozione della tecnologia Curnutt per la costruzione di un ammortizzatore nominato Curnutt R che diede vita a quelle che chiamiamo piattaforme stabili. Il mio Guru dei tempi, Richard Cunningham, in un articolo sulla prova della FXR che fu antesignana delle bici da 5/6 pollici (al cambio 127/152 mm decimali esclusi) per uso trail non celando il suo apprezzamento scrisse “The original Curnutt shock outperforms all the other stable platform valve shocks” (l’originale ammortizzatore Curnutt svernicia in prestazioni tutti gli altri prodotti).

Incarnava ciò che Gianni amava di più: l’innovazione e la cura costruttiva che ovviamente scontava un prezzo d’acquisto sicuramente superiore ad altre proposte del periodo, ma rimane un gioco per adulti non sicuramente vado a fare i conti in tasca a nessuno. Ognuno secondo le proprie possibilità fa del denaro quello che meglio crede: Salvador Dalì lo bruciava nel forno del pane perché lo divertiva, ho conosciuto persone che avevano l’abbonamento al Milan ed all’Inter pur di stare tutte le domeniche a San Siro… Non so se lo facessero per pura passione o per stare fuori casa il più possibile, noi amiamo stare sulle montagne ed in mezzo ai boschi, nessuno è perfetto ahimè. Ebbene sì eravamo al cambio di millennio anno 2000, da lì a poco anche la nostra piccola liretta sarebbe andata in pensione, il millennium bug non aveva lasciato traccia nei nostri PC nonostante un panico isterico alimentato dai Media. La voglia di avere un alba radiosa piena di nuove proposte nella MTB spronò Gianni all’implemento del sito web che con lungimiranza aveva riorganizzato ed alla ricerca di prodotti altrettanto esoterici che potessero affiancare Mountain Cycle.

Un’opportunità gli venne data da una conoscenza comune che lo mise in contatto con Guido L. un giovane che si stava mettendo alla ricerca di Marchi da importare che iniziò, grazie all’ introduzione fatta da Gianni, a far arrivare Foes ed un Marchio britannico molto di culto tra gli streeters di oltre manica, DMR bikes tutto acciaio dal peso sostenuto rigorosamente front con manubri in stile BMX e componenti a prova di uso sconsiderato (“Il rigidone paga sempre” GianLuca Bonanomi cit. Valcava inverno anni 2000 dopo una discesa con il freno anteriore fuori uso). Con una DMR Trailstar feci la prima (ed ultima ad oggi) discesa integrale della Marmolada, cosa che ricordo con estrema soddisfazione. Questo era un piccolo tassello, era una nicchia troppo definita ci voleva un prodotto che avesse uno spettro di utilizzo più trasversale non troppo specializzato.

Gianni stava ancora cercando la vera alternativa a Mountain Cycle: avevo regalato l’anno prima l’abbonamento alla nostra rivista di riferimento MBA, quella che cito come fonte ogni due per tre. Oltre ovviamente alle prove che venivano fatte ed agli scatti sui trail degni del direttore della fotografia dei film di John Ford che ti rubavano il cuore mettendoti nella condizione di fare fioretti al fine di risparmiare per riuscire ad andare nella patria della MTB una volta nella vita, vi erano pagine pubblicitarie in stile “Postal Market” usuali nelle riviste di oltre oceano dove i costruttori artigianali facevano proposte di acquisto dei loro telai, componenti o qualsiasi altra cosa entrasse in orbita MTB. Tra tutte le inserzioni, quella che colpì Gianni fu quella di un marchio con un logo in caratteri pseudo-gotici: Ellsworth bikes dal nome del suo fondatore Tony che dando un connotato cavalleresco proponeva un innovativo sistema di sospensione , uno schema che richiama i quattro punti di infulcro con giunto Horst affinato da generosi bilancieri superiori ed uno studio cinematico che sposta molto in avanti della ruota anteriore il punto di incrocio virtuale che definisce la traiettoria secondo cui la ruota posteriore si muove nell’arco della sua escursione : l’Istant Center Tracking meglio conosciuto con l’acronimo ICT.

La reputazione oltreoceano dei suoi telai era molto alta considerato che le unità ammortizzanti non erano ancora al livello attuale dove trovare una bici che non funziona è molto difficile, a quel tempo era difficile trovarne una che funzionasse: vero che l’umano ha la capacità di adattarsi a tutto quindi facevi spesso di una ciofeca (fine espressione di origine spagnola adottata dal napoletano che definisce un qualcosa di poco piacevole) inguidabile diventare la miglior bicicletta da montagna. Ma alcuni come Ellsworth erano e rimarranno dei capisaldi innovativi: non so se queste elucubrazioni fossero frutto di notti in preda a sostanze psicotrope oppure ad un’intuizione fortuita, ma immaginò un prodotto che nel primo decennio del nuovo secolo avrebbe allietato molti Bikers. Negli anni precedenti al 2000 Tony aveva collaborato con un altro produttore californiano, Sherwood Gibson, anima e corpo di Ventana Bikes che ricordo per la raffinatezza costruttiva dei suoi tandem biammortizzati come “El Conquistador” che ispirerà poi “The Witness” di Ellsworth , costruendo un robusto ed efficiente telaio dotato di un affidabile monocross: il suo nome era Joker.

Il tutto faceva intendere a Gianni che era nella giusta direzione, non c’era un importatore in Italia, la filosofia del marchio si collocava precisa nella visione di Pro-M. Nel giro di poche settimane in via Lucillo Gaio UPS recapitò i primi esemplari di Joker, seguiti in breve tempo da tutta la gamma dotata di sospensione ICT. Ho ben stampato davanti agli occhi la Dare azzurra del nostro droppatore seriale il silenzioso Mapo, il tandem del presidente il mitico GoldOne che condussi giù dalla Corona dei Pinci in Ticino avendo Red Moho come ignara passeggera che fortunatamente forse non vedendo davanti a sé vista la mia mole non si pose alcun problema qualcun altro sarebbe sceso alla seconda curva (per profondo senso di amicizia non cito il nome di un’altra vittima mia fatta in quel di Finale Ligure), l’ Epiphany di SpeedyFaustilla che la chiamavamo Fausta ma in realtà era Paola che l’accompagnò alla conquista di vette e gare di 24 ore in solitaria, i Dreadlocks di Buna che rivelava il lato reggae della Joker. Quel logo che ti faceva sentire tanto cavaliere alato Polacco ci avrebbe portato ad una rivoluzione pochi anni dopo, ma avremo modo di raccontarlo più avanti.

Proprio così, erano tempi di fermento di continuo e la rete aveva iniziato ad offrire servizi che fino a due anni prima erano impensabili. Le piattaforme di discussione quelle che erano note come Forum stavano prendendo piede in ogni settore, dagli animali domestici, alla cucina ed ovviamente al nostro mondo: si stava iniziando l’ora del caffè virtuale, che all’inizio si sperava ricalcasse i caffè letterari del diciannovesimo secolo, ma che rapidamente avrebbero assunto la connotazione di un bar sport dove tra urla ed assunzione di certezza i partecipanti si scannavano a colpi di maiuscole. Gianni lo sapete, da quando ne ho memoria, è un malato di tecnologia e nello specifico di elettronica ed informatica e di conseguenza di tutto quello che può aiutare la comunicazione.
La creazione del Forum Pro-M fu un passo importante per tutti coloro che stavano nell’entourage di Pro-M: stanze di discussi su tecnica, novità, eventi e calendario di uscite avevamo compattato ancor più il Racing Team. Da li a breve l’arrivo dei primi navigatori avrebbero fatto sì che tutte le uscite in bici fossero catalogate per difficoltà tecnica e fisica, descrizione del percorso alla ricerca della pura estetica e raccolte in una sezione dedicata agli itinerari di libero accesso a tutti i Bikers che ne volessero fare buon uso. Ad oggi sono centinaia quelli catalogati sino a circa 5 anni fa anche grazie al contributo di tanti amici che con noi hanno pedalato.

A quel momento preciso Mountain Cycle non era il solo marchio in famiglia, un idea di pura follia pervase Gianni: mettere in linea un configuratore che potesse offrire tutte le opzioni per allestire la bicicletta che desideravi. Nel 2000 nemmeno le case automobilistiche più blasonate lo proponevano, non era ancora entrato nell’ordine di idee la customizzazione, il configuratore venne costruito utilizzando Adobe Flash, entrando il vostro Virgilio era un pupazzetto connotato da una folta zazzera che in realtà antri non era che l’avatar di Gianni che da buona guida vi faceva accedere alla costruzione della bimba desiderata: potevi scegliere Marca del telaio, colore, taglia e soprattutto i componenti. In una tendina superiore vedevi peso e prezzo ed inviando un a mail avevi la possibilità di preordinarla… Esattamente come la desideravi o l’ avevi sino ad allora solo sognata.
Moltitudini di Bikers hanno passato ore a fantasticare su come costruirla, il mio più grande rimpianto è che anche questo mondo non esiste più. Ora puoi solo prendere quello che viene tirato fuori dallo scatolone tutto è già pronto come i cibi tolti dal surgelatore.

Resto un fedele sognatore, giocare non ha mai fatto del male a nessuno, anzi ci fa tutti più felici, chiudi gli occhi e vedi il tuo viso sorridere al pensiero di aver potuto esaudire un desiderio anche se reale non era.