Pro-Meide – Libro III – Tre uomini in bici per non parlare dell’ abate Vandelli

Libro III – Cap. VI

Tre Uomini in bici per non parlare dell’abate Vandelli

Ho sempre pensato che questo luogo sia adorabilmente assurdo, dove genialità e follia si abbracciano da secoli dando origine ad opere architettoniche ed ingegneristiche uniche, grazie alle barriere naturali che il Bel Paese ha nel territorio. Sono da sempre affascinato dai limiti e confini dalle scoperte che vai a fare: il cambio di versante ti proietta in ambiti paesaggistici, linguistici e culinari spesso agli antipodi di quelli in cui ci eravamo mossi fino a quel momento, gli Appennini Tosco-Emiliani ne sono un esempio.

“Gianni, ho un’idea per Agosto tanto siamo qui non ci muoveremo per ferie, ti propongo una tre giorni a cavallo tra Emilia e Toscana ci aspetta la Via Vandelli”, L’abate Domenico Vandelli lo conoscevo come per la sua innovazione cartografica, le cosiddette “le Isoipsae Vandellis” più semplicemente note come linee di livello di quota costante che permettono ai cartografi ancora oggi, nonostante l’uso dei navigatori satellitari una attenta e precisa stesura delle mappe. Questo fu solamente un mezzo per l’abate perché aveva ricevuto un compito al limite delle possibilità ingegneristiche nel XVIII secolo: concepire e disegnare un tracciato stradale che fosse all’avanguardia e che si facesse carico di seguirne i lavori. Il motivo era il matrimonio che il Duca Francesco III d’Este aveva concordato per suo Figlio Ercole con l’ultima erede del ducato di Massa Maria Teresa Cybo Malaspina, cosa che permise al Ducato di Modena di ottenere uno sbocco al mare, fatto negato fino a quel momento dalla sua posizione geografica.

Il tracciato percorre un ambiente montano spesso impervio e, come poi ne avremmo avuto prova concreta, ripido attraverso l’Appennino e le Alpi Apuane dove raggiunge al valico del Monte Tambura il GPM a 1634 m s.l.m. Al povero Vandelli furono posti severissimi vincoli costruttivi, oltre ad un tempo limite per la messa in funzione, la strada doveva evitare l’attraversamento dei centri abitati, evitare di transitare sul suolo dello Stato Pontificio, Granducato di Toscana e Repubblica di Lucca. Inoltre doveva avere una manutenzione minimale con pendenze che potessero permettere ai carriaggi che avrebbero trasportato blocchi di marmo un transito adeguato. Con un preambolo simile se fossi stato nei suoi panni mi sarei ritirato per vent’anni nell’abbazia dei Padri Benedettini di San Pietro causa esercizi spirituali, ma L’Abate, uomo di scienza, fece un miracolo avendo dalla sua anche la religione. Iniziò nel 1738 e nel 1751 la via era pressoché ultimata continuando nei cinque anni successivi con la costruzione di stazioni di posta, ostelli piazzole di scambio delle merci (conosciute come finestre Vandelli) e guardine per i gabellieri. La prima strada carrozzabile Italiana, disegnata per superare i fianchi scoscesi delle montagne, logisticamente gestita era finita.

Avevo raccontato la storia della Via per tutto il viaggio da Milano a Massa con Gianni che cercava di spegnermi come suo solito come se fossi un sound system forse un poco chiassoso, con noi avevamo un nuovo acquisto del Team Ivano G. aka “Il Prof.” che da tre mesi era entrato nel mondo magico di via Principe Eugenio 29 acquistando la sua prima MTB , una Mondraker Dune. L’incoscienza della passione ti fa commettere errori all’inizio che poi in ogni caso si persevera a commettere anche in seguito: Ivano non aveva mai affrontato un percorso di 135 km con 3500 mt. di dislivello positivo, ma facemmo di tutto per fugare i suoi dubbi sulla durezza del percorso, in quello Gianni non fece nulla per spegnermi.

Lasciato il furgone in piazza della stazione, prendemmo un treno locale talmente lento che con una trentina di fermate e tre cambi ci fece arrivare a Modena dopo 6 ore e mezza di sferragliante calura, dove ci attendevano due cari compagni di avventura Stefano G. aka “Girandola Funesta” poi reincarnato nel Liutaio e “Tarantola” (il suo vero nome se l’è scordato anche sua moglie lo conobbi undici anni prima durante la stesura di un articolo dedicato al primo Bike Park emiliano a Sestola) mente finissima, braccio d’oro e fotografo lisergico di Orme.tv un blog molto sottoculture raccolto in questa summa filosofica: “Nella biciclette amiamo l’eccesso e la sperimentazione. Dissonanza stilistica e vaneggiamento pedalatorio. Una narrazione visionaria e stucchevole che si snoda tra sentieri polverosi e strade secondarie.” Come potevamo non essere complici ed amici? Entrambi conoscevano molto bene Gianni, soprattutto il Liutaio visto che era un noto compratore seriale e compulsivo di biciclette applicando l’Orme pensiero, li avevamo coinvolti per la logistica e per condividere una parte del percorso. La Via Vandelli parte dal Portone di ingresso del palazzo Ducale di Modena ma fino a Pavullo nel Frignano ormai si confonde con la SS12 per cui avevamo trovato non interessante pedalare su asfalto per 42 km, poi avevamo una missione difficilissima che ci attendeva al ristorante “Quercia Grossa”: un esercito composto da gnocco fritto, tigelle, pesto modenese con un corollario di squacquerone, ciccioli e prosciutto crudo, prugnoli sott’olio ci avrebbero messo a dura prova altro che il passo delle Cento Croci. La notte fu come un viaggio in astronave, avevo vinto la battaglia ma con qualche strascico.

Al mattino preparammo le cavalcature, io avevo optato per la Salsa Fargo dove avevo fatto un esperimento pre-bikepacking: avevo legato sul portapacchi una sacca impermeabile che si utilizzava per stivare il necessario nei kaiak ed una borsa sul manubrio, non volevo a differenza di Gianni e Ivano tenermi sulla schiena lo zaino, saremmo stati per ore in sella e sgravare la schiena sotto il sole di Agosto era una condizione necessaria per non arrivare all’arrivo della prima tappa cotti come un lampredotto. Ivano ignaro aveva montato due Kenda Nevegal, ottime gomme per le discipline gravity, ma decisamente poco scorrevoli però era sicuramente motivato dopo i racconti fatti la sera prima a cena, avrebbe imparato a conoscerci con il tempo ma visto che a distanza di anni ci troviamo a pedalare ancora l’esperienza non si rivelò tanto errata. Gianni che da sua abitudine aveva montato le gomme più scorrevoli, sella più confortevole e limato i pesi sapendo dove stavamo andando era pronto con la sua dotazione Nikon ad immortalare il viaggio.

Saremmo arrivati a San Pellegrino in Alpe un’enclave a 1525 m s.l.m. divisa in due parti uguali tra la provincia di Modena e quella di Lucca, rappresentava il primo valico importante della via Vandelli porta della Garfagnana: ci attendevano una sessantina di km ed un migliaio di metri di dislivello, si poteva fare tranquillamente così ci dicemmo. L’inizio fu splendido si saliva dolcemente, raggiungemmo il castello di Montecuccolo sulla direttiva per le Piane di Mocogno per poi superare il borgo medioevale di Monzone inoltrandoci nelle Selve di Brandona alternando i tratti originali a noiosissimi tratti asfaltati della via Giardini che nella parte iniziale ricalca il vecchio tracciato: entrammo in un tratto acciottolato molto rotto fino a percorre un ponte naturale costituito da un unico blocco di arenaria lungo 33 m, il “ponte del Diavolo” a Montecenere. Questo monolite alimentava da sempre oscure e truculente leggende tra le genti della valle che andarono ad assommarsi a quella che ci avrebbe fatto compagnia al passo delle Cento Croci.

Il caldo era soffocante, il percorso si stava facendo sempre più duro e ci fermammo a pranzo a La Santona per un magnifico piatto di tortelli ai funghi di cui il profumo mi si ripresenta ogni volta che ne parlo, Ivano soffriva un attimo il ritmo che avevo imposto e la sosta avrebbe fato del bene peccato che un temporale tipico delle estati in montagna si stava avvicinando minaccioso con una coltre nera che ricordava le leggende del ponte. Pedalando sotto la pioggia con i fulmini che si aprivano varchi violacei nelle nubi illuminando il sentiero che viscido fagocitava le nostre ruote, trovammo rifugio dentro una chiesetta votiva che reca una lapide con cento croci a memoria di una triste locanda gestita da un ostessa assassina che derubava i mercanti di passaggio facendoli cadere da una botola nella cantina dove finivano squartati su grossi puntali di ferro conficcati sul pavimento. Utilizzava poi la carne dei malcapitati per darla in pasto agli avventori della locanda, e nella sua follia aveva eretto 99 croci in memoria del suo lavoro. Finì quando un frate di passaggio mentre cenava aveva sollevato con il suo cucchiaio un pezzo d’unghia con brandelli di carne falange dal fondo della zuppa. Riuscì a fuggire e convincere dei contadini che avevano sentito le sue grida a tornare con lui alla locanda. L’ostessa fu linciata e bruciata e i 99 resti delle vittime recuperate che le loro anime si dice tornassero a lamentarsi intorno alla chiesetta dove ci trovavamo in quel momento: in effetti il vento che soffiava impetuoso sembrava frutto di un coro di voci lamentose e appena potemmo ripartimmo lesti anche se alle leggende non prestiamo fede.

Passato il Sasso Tignoso, un massiccio di serpentino frutto di un antica eruzione vulcanica alto circa 1400 mt. , il sole tornò a farsi sentire forte e chiaro ci stavamo portando verso il Passo delle Radici pronti alle ultime rampe che ci avrebbero portati a San Pellegrino non senza dolore, essendo un luogo di pellegrinaggio qualche stazione di sofferenza ci toccava. Furono 10 km di grande difficoltà per Gianni visto che avevamo finito anche l’acqua ed i crampi iniziavamo a martellargli i polpacci. Ivano ed io ci mettemmo nel ruolo di sherpa come se gli ultimi 1500 m che ci separavano dal Santuario di San Pellegrino fossero gli 848 m della zona della morte sull’Everest in carenza di ossigeno. In stato catatonico ci buttammo sul letto e la mattina dopo eravamo pronti ad incontrare un gruppo di bikers modenesi capitanati da Corrado T. aka “Yuppareppa”, un vero appassionato che aveva avuto in passato qualche animata discussione con Gianni per dispute puramente tecniche che ci avrebbe fatto da guida nel tratto che ci avrebbe portato ad attraversare la Garfagnana. Tarantola non era stato in grado di venire poiché impegnato nella grafica del catalogo di DSB quindi aveva chiesto a lui di condurci. “Tarantola non sai cosa ti perdi, il Freak su Fargo non so se arriverà intero a Castiglione in Garfagnana”… Gianni era ritornato di buon umore lo sentivo dal tono della telefonata che aveva appena concluso.

La vista sul monte Forato, montagna famosa per il suo doppio tramonto, era di buon auspicio quel mattino mentre ci inoltravamo sulla dorsale del monte Verrucchiella al seguito dei Bikers che con Yuppareppa ci precedevano. Avremmo percorso un sentiero che seguiva l’originale “Via Fredda” pensata dal Vandelli per percorre il crinale assolato nei mesi estivi: il tracciato ormai era asfaltato quindi ci trovammo su un itinerario legato al pellegrinaggio che da San Pellegrino in Alpe conduce ad un santuario sotto l’arco che da il nome alla montagna, legata ad un ‘altra leggenda che vuole che il Santo durante un litigio furioso con il Demonio gli sferrò un tremendo schiaffo che lo fece volare dall’altra parte della valle facendolo sbattere contro le Alpi Apuane che vennero trapassate dal corpo del Diavolo lasciando come traccia il Monte Forato. Una delle tante leggende che ci stavano accompagnando in questo viaggio. Il sentiero era la giusta ricompensa per le fatiche del giorno precedente, ci godemmo centimetro dopo centimetro mentre si aprivano sotto di noi viste commoventi della valle del Serchio allietate alla fine di schiacciatine appena sfornate dal pizzicagnolo fuori le mura di Castiglione di Garfagnana.

Qui appena dopo la sosta pranzo, prima di riprendere la via attraversando il Serchio per risalire, tanto per cambiare sembrava troppa grazia la discesa, la valle dell’Edron fino al lago di Vagli accadde qualcosa a cui seppi mai dare una spiegazione: il reggisella della Evolve di Gianni diede forfait. La vite che teneva la slitta andò persa nel prato dove ci eravamo sistemati per una pennica post schiacciata con finocchiona. Nonostante le ricerche degne di CSI non la ritrovammo, ma fortunatamente trovammo un negozio aperto in agosto ed il proprietario prestò un meno nobile ma sicuramente efficiente reggisella di identico diametro, cosa che dopo aver salutato i compagni della mattinata ci avrebbe consentito di proseguire. Il tratto più noioso di tutta la Via era quello, non tanto per i paesaggi che erano molto intensi con aspetti alpini, non certamente per il campanile che emergeva da lago memoria del paese di Fabbriche di Careggine fatto morire nel secondo dopoguerra per assicurare un invaso alla richiesta di acqua da parte della Lucchesia, ma per l’asfalto che stava facendo soffrire Ivano. L’incazzatura per il guaio meccanico invece faceva di Gianni un passista che vede l’arrivo. Comunque sia c’è sempre un lieto fine: non si soffre tanto per farlo e quella sera cenammo con il miglior cinghiale in umido con olive, garantito dal cuoco che lo aveva cacciato prima di cucinarlo che io abbia memoria non fu un caso che ne mangiai tre piatti. Questa gita aveva dei risvolti culinari che stavano esaltando l’itinerario, questo salto dall’Emilia alla Toscana era la riprova di quanto avevo sempre apprezzato nel valicare i confini.

Svegli di buon mattino con una nebbia leggera che oziosa lambiva il lago, ci preparammo per affrontare gli ultimi 1100 mt. di salita fino al passo della Tambura. La salita è durissima già dai primi metri, la sterrata che porta alle cave non da tregua poi la Via riprende il corpo originale purtroppo senza manutenzione quindi ci ritrovammo su un fondo smosso fatto da sfasciume di marmo che di fatto non permettevano la pedalata. Non faceva per niente caldo quel mattino mentre arrancavamo sulla salita, di colpo iniziai ad avere dei forti dolori addominali che mi costrinsero a rallentare perdendo contatto con Ivano e Gianni. Mi sentii malissimo la vendetta dei tre piatti di cinghiale con olive mi aveva colpito, utilizzai uno dei buchi dei pali che erano stati fatti per mettere alla gogna i briganti che infestavano la zona nel XVIII secolo come latrina. Fu un calvario salire al passo allietato dalle parole di Gianni che non mi erano di sprone: “OmmeM@@@@ muoviti che qui se vai avanti così facciamo notte!”

 

Le sue confortanti parole echeggiavano nella valle ed io mi fermai altre due volte, mi sentivo uno straccio nonostante il costante incoraggiamento “OmmeM@@@@ non ti veniamo a recuperare, quindi ti aspettiamo in cima”. Finalmente mi ripresi il sole finalmente si era fatto strada ed il vento diradato le nubi, la discesa era lì che ci aspettava, ci riposammo per una buona mezz’ora e poi iniziamo a scendere sulle ali della libertà perché la discesa era come un lancio dall’aereo in una caduta libera infinita…ovvio che riuscii anche li a fare guai.
il fondo era fatto con scarti di lavorazione del marmo taglienti come lame, sconnesso ed infido ma per stare con i miei compari rischiavo sempre qualcosa e così forai per due volte, ma il paesaggio era cosi coinvolgente che non me ne preoccupai per nulla. Arrivammo a Resceto un piccolo borgo montano della Lunigiana dove il tratturo tritagomme era alla fine, ed anche noi lo eravamo in tutti i sensi soprattutto per la fame.

L’occhio mi corse a un cancello grigio alla nostra destra dove campeggiava una targa rossa con la scritta circolo ARCI: entrammo nel cortile e ci venne incontro un signore anziano. “Possiamo mangiare qualcosa? Siamo abbastanza stanchi” L’uomo mi guardò e disse “Ho del pane sciocco e del Lardo, di altro nulla”. Al suo fianco era comparso un ragazzino disabile che ci guardava fissi incuriosito forse di non conoscerci, si girò silenzioso e zoppicando seguì il signore. Ricomparve con tre pani enormi con dentro il vero motivo del viaggio: il lardo di Resceto.
Il primo morso ci fece capire che alla fine scoprire anche un prodotto povero valeva tutta la fatica fatta, lo rifaremmo per provare la stessa emozione.