Pro-Meide – Libro I – L’ 0m de Bérghem

Libro I – Cap X

L’Om de Bérghem

“Biondo, vieni qui da me tra due ore puntuale, non come il tuo solito, poi prendiamo la Subaru ed andiamo a Seriate, ho un appuntamento”. Dopo due ore circa inforcai la moto e sgattaiolando nel traffico Milanese delle 19 in stile “fast and furious”, suonai alla porta del sette di via Lucillo Gaio. La Subaru Impreza era già pronta con il muso aggressivo, reso ancor più affilato dall’enorme alettone che campeggiava sul baule, rivolto all’uscita, Gianni lesto uscì dalla porta ci tirammo dietro il cancello ed accompagnati dal borbottio cupo dello scarico che mi ricordava il latrato di un pittbull affetto da raucedine, ci iniziammo a muovere nel quotidiano girone infernale del traffico in tangenziale.
“Scusa Gianni ma perché fuori dal casello di Seriate? Con tutti i posti che ci sono, potevi dare appuntamento anche in un bar… Esistono anche a Seriate, magari non fanno aperitivi come in Sempione ma un analcolico lo potremmo anche avere… Ti vedi la scena? Ci fermiamo all’uscita del casello in attesa di qualcuno al buio, noi due appoggiati con rispetto ovviamente alla Subaru che già da lontano gli automobilisti potrebbero scambiare i cerchi per dei fari abbaglianti puntati su di loro, io con il chiodo di pelle e l’orecchino tu sempre a smanettare sul Communicator… L’equipaggio di una volante della stradale di pattuglia potrebbe scambiarci per due pushers usciti dal film Trainspotting.”

Gianni guidava concentrato mi lanciò uno sguardo sornione “Tranquillo tra 22 minuti secondo più secondo meno saremo fuori dal casello di Seriate”. Lo guardai stupefatto tanto per rimanere in tema “Siamo ancora a Cormano mi sembra che forse sei un attimo ottimista, va bene che bisogna sempre esserlo ma 22 minuti… Ho capito mi devo preparare per il salto nell’iperspazio della Milano -Venezia. Unico problema che le mappe galattiche dell’Impero le ho dimenticate nel baule della moto…” Che ci crediate o no volammo nel vero senso della parola: prima che si desse una calmata anni dopo grazie ad una rogatoria internazionale cortesemente recapitata dai Carabinieri per un paio di violazioni del codice stradale in Svizzera, Gianni aveva il pedale dell’acceleratore incollato con la Loctite al pianale… Che fosse con l’auto o con il furgone. Ad intervalli brevi sugli avvallamenti della A4 la Subaru si librava in aria come un F15 in caccia per poi atterrare sul nastro di asfalto con i post bruciatori attivati, il manometro della turbina chiedeva pietà: mi rivedevo la scena del film “The Blues Brothers” dove i due fratelli a bordo di una Dodge Monaco berlina del 74 inseguiti per le vie di Chicago dalle auto della polizia: Elwood dice a Jolliet che un pistone era partito e lui risponde “Per dove?”. Arrivai all’appuntamento con i segni della pressione delle cinture ben tracciati sul Chiodo.

Non dovemmo attendere molto all’uscita, fiocamente illuminata dai fari giallastri del casello e dal passaggio sporadico di qualche autoarticolato, una Opel Frontera rallentò; il guidatore giro il capo verso di noi e fece una brusca inversione ad U parcheggiando di fronte al muso della nostra auto. La portiera si aprì ed una figura massiccia ci venne incontro con tra le mani una scatola di cartone. “Gianni ciao, pòta sei già arrivato, pensavo che il traffico ti avesse rallentato in tangenziale, lì se non vai alle cinque di mattina lo trovi sempre… Varda i magùtt (sostantivo del Lombardo che deriva dal Longobardo Magat, ragazzo, che indicava le maestranze Bergamasche utilizzate nel corso dei secoli nella fabbrica del Duomo di Milano, poi per qualificare i muratori che scendono nella piccola mela per lavorare nei cantieri) che de Bérghem van via a che ura per andà a Milan”. Appoggiò la scatola a terra e strinse la mano a Gianni e guardandomi si presentò: “piacere sono Patrizio”. Di fronte a me stava un uomo intorno ai quarant’anni, corpulento con le gambe leggermente divaricate che terminavano in un paio di scarpe antinfortunistiche slabbrate, la sua testa incassata sulle spalle da pugile metteva in risalto la mascella da Blek Macigno, corredata da un ampio rassicurante sorriso. Aveva addosso l’odore di chi passava il suo tempo chiuso per almeno quattordici ore in officina attaccato a frese ed a torni, le mani segnate da minuscole bruciature memoria degli sfrissi del metallo incandescente che saltavano via come lapilli di lava durante le lavorazioni.

“Dai fammi vedere cosa hai fatto di nuovo e cosa mi vuoi dare!”. Come sempre Gianni senza troppi giri di parole e inutili fronzoli, quelli li lascia da sempre a me, voleva prendere tra le mani l’ultima creazione di Patrizio Bergamelli che era conosciuto ai più nel mondo delle MTB come “Bergman”. Patrizio aprì sotto i nostri occhi curiosi la scatola con la grazia quale un Sommelier scaraffa un Chateau Pétrus del 1990, con cura mise in mano a Gianni una forcella a steli rovesciati mono piastra dove partendo dai para steli campeggiava imperiosamente superbo il logo BERGMAN in un bianco quasi ghiaccio. “Si chiama Alice SC, Alice come il nome di mia figlia è dedicata a Lei, SC per Single Crown: 150 mm di corsa, perno passante da 20 mm, ritorno e precarico totalmente ad aria. L’ho pensata per l’uso freeride, meno ingombrante di una doppia piastra, in ogni caso rigida come nessun altra: ho fatto gli steli da 35 mm” ! Le sue parole trasmettevano sincera soddisfazione per il lavoro eseguito, i suoi occhi brillavano tanto quanto i nostri. “Patrizio domani la farò montare su una bici delle mie, la proverò Sabato o Domenica e poi ti farò sapere cosa ne penso. Magari potresti venire anche Tu: organizzo io. Andremo ai Pian dei Resinelli con alcuni amici… Ti farò sapere”. Ci salutammo e riprendemmo l’autostrada interstellare direzione Milano, dove arrivammo al numero 7 di Lucillo Gaio in un lasso di tempo così breve che ancor oggi son convinto di aver viaggiato a ritroso nel tempo.

Patrizio Bergamelli concreta appieno il nativo della val Gandino una delle valli laterali della Seriana: Leffe il suo paese originario già dal medioevo era conosciuto per i tessuti in panno di lana e sotto la repubblica Veneziana per le armi bianche forgiate dagli armaioli in riva al Romna il torrente che dava energia ai mantici che scivola ancor oggi a sud per affluire nel Serio. Le lavorazioni meccaniche furono la naturale evoluzione ed ancora oggi nonostante le mutazioni dovute al villaggio globale, molte di queste sono fatte qui tra Leffe e Gandino. Come ho già scritto la MTB è una calamita per Archimedi Pitagorici, come quello che crea macchinari fantascientifici per Paperinik, che dall’origine ad oggi (ahimè in maniera meno visionaria ma più economica) ci ha dato centinaia di occasioni per ammirare quanto la passione possa essere un numero elevato alla N. Patrizio si occupava di robotica industriale in un’officina laboratorio a Gandino dove svolazzava un giorno sì e l’altro pure, defecando ovunque, un pappagallo multicolore che faceva molto esotico e che veniva regolarmente punito rinchiuso in gabbia al centro dello spazio lavorativo. A parte il pappagallo in stile la vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe, il nostro Archimede Bergamasco aveva un senso per la meccanica fine molto sviluppato: nei primi anni novanta aveva sviluppato una forcella, la PJ Over, dove aveva utilizzato per primo come elemento ammortizzante gli elastomeri micro cellulari a cella aperta a differenza di Manitou e di altri come Fimoco che si affidavano a quelli compatti, molto meno progressivi. In campo nazionale fu una vera rivoluzione, soprattutto perché aveva una corsa da 55 a 100 mm cosa che ai tempi la rendeva unica per caratteristiche strutturali e di assorbimento. Questo successo fece si, grazie anche allo sviluppo di biciclette specifiche, di mettere in commercio una forcella doppia piastra che avrebbe calcato a lungo i tracciati delle gare di discesa: la “The Queen”. Nel tempo venne apprezzata dai più forti discesisti di casa nostra come Fabrizio Cozzi (tanto per fare un nome a caso), regalando ottimi risultati che fecero da trampolino di lancio per quella che sarebbe stata la forcella con più grande diffusione di Bergman, grazie anche al supporto commerciale di Pro-M: l’Alice SC di cui quella sera avevamo ricevuto il primo esemplare.

Come da regolamento, il buon chirurgo (sempre sia lodato) Marnati la trapiantò su una Mountain Cycle Tremor nera come la pece. Gianni aveva tra le mani un prodotto che in quel momento non aveva competitori: era rigidissima in confronto a tutte le altre allora sul mercato, semplice, robusta e soprattutto semplice da manutenere! Il sistema era semplice, aveva due camere di cui una rovesciata che consentivano precarico e ritorno, unico neo era la scorrevolezza che andava aiutata ingrassando i parapolveri affogati sotto una ghiera di tenuta, ma risolto questo dettaglio con un grasso al PTFE facendo una normale manutenzione non si incorreva in un nessun’altra bega. La prima prova confermò dopo l’uscita la bontà della fattura, certo non aveva le finiture che ammiravamo sulle Risse; mi piace paragonare l’Alice SC alla polenta bramata bergamasca, macinata un poco grossa, ma tanto tanto sostanziosa. Gianni conscio di tutto ciò strinse un accordo con l’Om de Bèrghem per la distribuzione dei suoi prodotti: nei due anni successivi, fino all’arrivo della FOX 36 che avrebbe cambiato il mondo delle sospensioni cancellando come uno Tzunami i piccoli produttori di sospensioni negli States e non solo, avrebbe venduto più di un migliaio di pezzi. Ciò consentì a Patrizio e Gianni lo sviluppo e la produzione di una doppia piastra l’Alice DC da 200mm di corsa, la versione adulta da 170mm di Alice chiamata Eye Men in onore di sua moglie che era di origini Nigeriane ed una sorprendente forcella a steli tradizionali con un archetto di irrobustimento veramente minimale (sorella della Ekbo che l’ archetto non aveva nemmeno e che rimase allo stadio prototipale). Quest’ ultima si chiamava Elias dedicata al suo secondogenito. Oltre questa caratteristica aveva un raggio di escursione dai 60 ai 120mm che la rendeva un ottimo componente per un telaio come quello della Mountain Cycle Zen che era appena giunto dalla California: come credo ormai vi sia ben noto, il nostro ardito volontario era sempre a disposizione per le missioni di collaudo dei materiali e pressò il buon Patrizio affinché ne finisse una in tempo record entro Venerdì, perché quella Domenica saremmo andati alle Rive Rosse da Brusnengo, il giro era perfetto per festeggiare il matrimonio di telaio e forcella.

Come sempre parcheggiammo nel piazzale del cimitero che alla mattina alle 9 era mestamente popolato da vedove e vedovi in là con l’età che portavano fiori in una mano e stracci per lucidare il marmo nell’altra, ci guardavano assorti pensando ad una gioventù probabilmente che era un lontano ricordo. Attraversato il paese abbandonato l’asfalto ci si addentrava nei vigneti che esposti a sud in file scomposte che rimarcavano le viti ritorte ci accompagnavano fino alla prima vera salita spezza polmoni che portava al santuario della Madonna degli Angeli da li si aprivano varie tracce, le “speciali enduro” non erano ancora nate; pronti per la prima discesa quel giorno che ci avrebbe portato scendendo in un calanco di arenaria rosso arancione al borgo di Curino da dove saremmo risaliti in direzione delle Rive. Gianni era ringalluzzito in modo particolare quel giorno, sarà stato per l’una o l’altra oppure per entrambi, scese mantenendo una disinvoltura che solo Valentino Balboni (storico collaudatore Lamborghini) avrebbe avuto. Alcuni di noi tra cui il vostro narratore si “ingarellarono” tra i dossi ed i canali del calanco, staccando gli altri tra cui Gianni. Ci fermammo poco prima dell’asfalto battendo il cinque tra noi in segno di giubilo per la divertente discesa, stavamo pronti al solito amorevole sfottò per l’ultimo arrivato quando un grido strozzato ci azzittì. “Ragazzi correte, @zzo muovetevi il Biffi si è smaterializzato!!!!!!!!” Abbandonate le biciclette di corsa risalimmo il sentiero: a terra inerte stava su un fianco Gianni. La faccenda era seria, non si muoveva; lo adagiammo supino non dava segno di essere presente, una non celata preoccupazione investì tutti i presenti. Ma come @zzo aveva fatto a cadere? Il punto non era particolarmente accidentato non c’erano sassi smossi. Feci per prendere la bici che era a qualche metro da lui e sollevandola mi accorsi che si era sfilato uno stelo dalla testa, causa della rovinosa caduta, ma non era importante in quel momento. Dovevamo portare in ospedale Gianni che avendo gli occhi fissi nel vuoto privi di una qualunque espressione non ci dava alcuna risposta alle nostre domande. “Gianni come stai, rispondi!… Mi senti, per favore… Dimmi qualcosa …” La situazione sembrava grave, vuoi che avesse un trauma cranico o altro dovevamo agire subito. “Ragazzi qui il telefono non prende, vado a chiedere qui in paese se mi lasciano fare una telefonata al 118”.

Mi tolsi il casco e mentre mi stavo allontanando in direzione del borgo sentii una serie di suoni sconnessi emessi dalla voce ancor più nasale di Gianni. “Po….Poo…Pooooo”. Il pallore lo aveva abbandonato, lo sguardo era un poco più vigile e cercava di formulare parole. “Non chiamare il 118”. Si era ripreso, l’ipotesi di essere portato via in ambulanza gli aveva fatto ritornare la parola, sembrava lo spaventapasseri del Mago di Oz tutto scomposto a bordo strada: andammo a recuperare il furgone e lo riportammo a casa. “La Zen ha riportato danni???” Questo ci rassicurava, era tornato in sé: il solito Gianni che non chiedeva di essere portato al pronto soccorso ma si preoccupava della sua bimba… Tutto regolare raga.

Dopo i controlli del caso e una notte di meritato ma doloroso riposo Gianni prese il telefono e chiamò Patrizio: “Patrizio sai che sono quasi morto??? Si è sfilato lo stelo dalla testa della forcella, ho fatto un volo pazzesco, ho perso anche per un po’ l’uso della parola, oltre tutto sono blu come il grande Puffo…” Patrizio attese un attimo prima di dare risposta “ Pòtaaa Gianni, mi hai messo fretta e… e… e mi son dimenticato di incollarlo. comunque sei ancora vivo quindi potrai continuate i collaudi.”